Una veduta delle chiuse di Miraflores del canale - Ansa
I prossimi mesi saranno decisivi. Da qualche settimana, a Panama è cominciata la stagione umida. E i meteorologi dell’Autorità del canale scrutano con il fiato sospeso qualunque indizio possa rivelare il corso delle precipitazioni. Un altro anno di siccità record come il precedente costringerebbe a una nuova, drammatica stretta.
Mai come ora, il funzionamento della grande autostrada interoceanica d’America – da cui passa il 6 per cento del commercio mondiale – dipende dall’andamento delle piogge. Il Niño – “effetto collaterale” del cambiamento climatico – ha provocato un’ondata di caldo anomalo in tutto il Centroamerica. In particolare in quell’ampia fascia che lo percorre da Nord a Sud, per 1.600 chilometri attraversando sette Paesi, il cosiddetto Corredor Seco, una delle regioni più sensibili al mondo, secondo l’Onu, al riscaldamento globale. Le piogge hanno iniziato a diradarsi a partire dal 2014.
Nel 2019 – il quinto più secco degli ultimi sette decenni per Panama –, il calo è stato del venti per cento. E ora il canale rischia di restare senz’acqua. Un problema non da poco per le 12mila navi che percorrono i suoi settantacinque chilometri, ogni anno, in modo da evitare di circumnavigare il Continente. Dato il dislivello fra Atlantico e Pacifico, il loro passaggio viene attuato con un complesso meccanismo di chiuse che iniettano o estraggono acqua dolce proveniente dal Gatún, il lago artificiale da 430 chilometri quadrati costruito ad hoc all’inizio del Novecento. A quest’ultimo – e all’altro invaso più recente di Alhajuela –, è legata a doppio filo la sorte del canale.
E della metà della popolazione nazionale a cui i due laghi garantiscono i rifornimenti idrici. Per questo, l’abbassamento repentino del livello del lago già all’inizio del 2019 ha allarmato il governo panamense. Secondo le ricerche di quest’ultima, l’incremento della temperatura di un grado nel bacino del canale ha provocato un aumento dell’evaporazione del Gatún di almeno il 10 per cento. Di fronte alla gravità della situazione, all’Autorità non è rimasto che contingentare il transito. Ogni imbarcazione che passa “costa” una quantità d’acqua equivalente fino a trenta piscine olimpiche. Moltiplicato per trentacinque – il numero di quante, ogni giorno, accedono al canale – si può arrivare fino a 1.050 piscine olimpiche, cioè quasi 2,6 miliardi di litri d’acqua. L’impiego di quest’ultima dipende dalla dimensione dell’imbarcazione. Da febbraio 2019, dunque, è stato fissato in tredici metri il pescaggio massimo delle navi in transito, quasi due metri in meno rispetto allo standard.
Un anno dopo, però, Panama ha dovuto rincarare la dose. E dallo scorso febbraio è stata prevista una tassa fino a 10mila dollari (sempre in base alla misura dell’imbarcazione), per il consumo idrico. A cui si somma un’imposta aggiuntiva in base al livello del Gatún al momento del passaggio. Le disposizioni implementate «ci hanno consentito di dare una risposta soddisfacente a una difficile congiuntura», ha spiegato Carlos Vargas, vicepresidente della sezione Acqua e ambiente del canale. Nel medio e lungo periodo, però, la sostenibilità del flusso dipende dall’evoluzione delle precipitazioni nel prossimo futuro.
Al momento, però, le previsioni sono tutt’altro che rosee data la stretta relazione tra il Corredor Seco – dove si trova Panama – e l’andamento climatico globale. Un dramma per i 10,5 milioni di abitanti della regione, di cui il 60 per cento pratica un’agricoltura di sussistenza. Già l’anno scorso, oltre 1,5 milioni di persone erano alla fame a causa della siccità secondo le stime della Fao e del Programma alimentare mondiale (Pam).
Solo in Guatemala, la malnutrizione è aumentata di 6,9 punti percentuali. Proprio l’assenza prolungata di precipitazioni è diventata, negli ultimi anni, un potente acceleratore dell’esodo dal Centroamerica. Una fuga disperata per la sopravvivenza che nessun muro può fermare. Anzi, è destinata a crescere. In base alle stime dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, entro il 2050 saranno 17 milioni i latinoamericani espulsi dai loro Paesi dal riscaldamento globale.
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