La marcia silenziosa dei sostenitori dell’ex presidente Lula a San Paolo - Reuters
Né nella sede principale di San Paolo né nel suo cuore informale – il sindacato dei metallurgici nella vicina São Bernardo Campo –, nessuno lo ammette esplicitamente. Tutti, però, ne sono consapevoli. L’obiettivo del progressista Partido dos trabhladores (Pt) e del suo leader, Luiz Inácio Lula da Silvia è vincere domenica, al primo turno presidenziale. Da quando, gli ultimi sondaggi hanno trasformato la speranza in una possibilità concreta, il fermento all’interno del centro-sinistra è palpabile. Il più cauto – dicono fonti ben informate – è proprio "Lula", come lo chiamano ammiratori e oppositori. Giunto alla sesta corsa, l’ex presidente sa quanto l’umore dell’elettorato sia mutevole. Specie di quel 15 per cento che, secondo le ultime rilevazioni, non avrebbe intenzione di andare alle urne: si tratta soprattutto di cittadini dei gruppi sociali marginali, il principale bacino di consensi per Lula. Quest’ultimo sa di avere necessità di ogni scheda favorevole per raggiungere il 50 per cento necessario a evitare il ballottaggio: sarebbe la prima volta dal trionfo di Fernando Henrique Cardoso nel 1998. Per il leader del Pt, dunque, che sfiora la metà delle preferenze, l’astensione è un rivale più temibile del capo dell’ultradestra di Jair Bolsonaro, che stacca di almeno 17 punti. Nei giorni scorsi, pertanto, il candidato del centrosinistra ha moltiplicato gli eventi nelle periferie delle grandi città, dove aleggia lo spettro del non voto. Lo stesso ha fatto anche Bolsonaro.
Formalmente ci sono altri sette sfidanti ma nessuno di loro raggiunge il 10 per cento. Al momento irrilevanti, il loro bottino di voti potrebbe diventare importante in caso di secondo turno, il 30 ottobre. L’attuale capo di Stato ci spera. Il candidato della sinistra, nel dubbio, ha preparato un "piano b" volto a ottenere i consensi degli elettori radicali di Ciro Gômes, senza alienarsi quelli dei moderati. La stessa strategia che lo ha portato a un passo dal Palazzo di Planalto, da cui è uscito nel 2010, dopo due mandati, con il record assoluto di popolarità. In dodici anni, però, varie epoche si sono susseguite nella politica brasiliana. Quella della saudade (nostalgia) per Lula, durante la presidenza della meno carismatica delfina Dilma Rousseff. Quella del disincanto totale nei confronti dei partiti, in primis il Pt, sull’onda dello scandalo Lava Jato e della crisi economica, dovuta al crollo del prezzo internazionale delle materie prime. L’idolo Lula, nel frattempo imprigionato, era caduto in disgrazia.
In questa fase è avvenuta la rapida ascesa di Jair Bolsonaro, passato tra il 2016 e il 2018 da «personaggio folcloristico» ad argine di fronte alla frustrazione generale. I suoi discorsi, basati sul rispetto dell’ordine, dei valori tradizionali, della lotta a oltranza alla corruzione, l’anticomunismo e sulla rivalutazione della dittatura, sono riuscite a rassicurare l’elettorato smarrito. A interrompere la luna di miele – più delle boutade contro donne, minoranze, ambientalisti, indigeni e gli organismi che li tutelano, inclusa la Chiesa cattolica –, è stato il covidão: non solo la pandemia, bensì il disastro ad essa seguito a causa del negazionismo a oltranza del presidente e del disastro economico innescato dal Covid. La sua popolarità è crollata mese dopo mese, come dimostra l’attuale consenso a meno del 35 per cento.
Qui si inserisce la "fenice" Lula. In procinto di compiere 77 anni, l’ex presidente ha saputo cambiare il cambiamento di clima che, tra l’altro, ha coinciso con la propria riabilitazione, poco più di un anno fa, da parte della Corte Suprema che, al contrario, ha stigmatizzato i metodi del grande accusatore Sergio Moro. In particolare, il leader del centrosinistra ha saputo tessere un’alleanza ampia, come dimostra la scelta come vice dell’ex rivale conservatore Geraldo Alckim, figura in grado di catturare una parte del voto evangelicale che, quattro anni fa, era andato al 70 per cento al candidato della destra estrema, formalmente cattolico eppure battezzato nel Giordano dal pastore pentecostale Everaldo Dias Pereira. L’idea è stata quella di costruire un "blocco" di forze democratiche per isolare Bolsonaro. Le intemperanze di quest’ultimo e le ripetute affermazioni di essere disposto «a fare la guerra» in caso di sconfitta gli hanno facilitato il compito.
Resta, però, un’incognita. Quelle bolsonariste sono solo parole o l’ex capitano ha i margini per un colpo di mano? I vertici militari sembrano tiepidi nei suoi confronti. I quadri intermedi, però, hanno ottenuto enormi dall’attuale governo e potrebbero essere meno pronti dei colleghi statunitensi a far rispettare le regole democratiche in caso di una Capitol Hill bis. Ancora più concreto, il rischio di violenze post-risultato: già in campagna, ci sono stati tre omicidi, tutte le volte commessi da bolsonaristi.