L'ex presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, ora in carcere (Ansa)
Formalmente le due questioni non sono legate. La richiesta di scarcerazione era stata presentata dalla difesa di Luiz Inácio Lula da Silva ad aprile. Quando cioè l’ex presidente aveva compiuto un anno da recluso nella stazione di polizia di Curitiba e il Tribunale superiore di giustizia aveva ridotto la pena a otto anni e 10 mesi e 20 giorni. Nelle ultime cinque settimane, la Corte Suprema aveva esaminato la richiesta in una serie di udienze virtuali. Lunedì sera, però, il magistrato Gilmar Mendes ha ordinato che fosse dibattuto ieri in sessione plenaria dalla seconda sezione del massimo tribunale: nella notte era attesa la decisione. La data non è casuale. Il cambio di programma è avvenuto meno di 24 ore dopo la pubblicazione, da parte del portale di inchiesta The Intercept dei messaggi scambiati tra il 2015 e il 2018, tra Sergio Moro, ex giudice e ora ministro della Giustizia, e i pm dell’indagine “Lava Jato”. Con quest’ultimo termine viene indicato il maxi-scandalo di mazzette nell’ambito del quale è stato condannato Lula, proprio per mano dello stesso Moro nel 2017: il verdetto è stato poi convalidato in appello.
L’articolo 254 del codice penale proibisce che un magistrato giudicante indirizzi qualunque delle due parti. Se lo fa, egli può essere considerato «sospetto». Nelle parti di conversazioni diffuse, Moro – chiamato a giudicare gli imputati di Lava Jato – sembra dare suggerimenti ai colleghi dell’accusa. Ad esempio, dicendo di invertire le fasi di un’inchiesta o di aumentare la frequenza delle operazioni. Gli interessati non hanno smentito i messaggi pubblicati dal sito di Glenn Greenwald, noto per aver diffuso i segreti di Edward Snowden. Moro, però, ha parlato di normale confronto fra colleghi non proibito dalla legge. «Nessuna anomalia né orientamento », ha ribadito. Mentre il capo del pool inquirente, Deltan Dallagnol, ha ribadito «l’imparzialità dell’indagine». A tuonare contro il «complotto», è stato, invece, il Partido dos trablhadores (Pt) e il suo leader incarcerato, Lula. Quest’ultimo si è detto «impressionato dal grado di promiscuità» delle relazioni tra giudice e pm. E ha concluso: «La verità si ammala ma non muore mai». A tacere, almeno all’inizio, è stato l’attuale presidente, Jair Bolsonaro, contro cui avrebbe dovuto correre Lula alle presidenziali di ottobre ma non ha potuto farlo a causa della condanna. Quest’ultimo, di solito fin troppo eloquente su Twitter, ha affidato alla segreteria per le Comunicazioni una breve dichiarazione in cui ribadisce la «fiducia» al proprio ministro della Giustizia, ovvero Moro. Poi, però, ieri si è mostrato al suo fianco a una cerimonia ufficiale a Brasilia, nel corso della quale ha concesso all’ex giudice una decorazione.
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A difendere con più foga quest’ultimo è stata l’ala militare del governo di ultra-destra. A partire dal vice, l’ex generale Hamilton Mourão. Al momento, dunque, sembrano improbabili le dimissioni di Moro da ministro, come chiesto da una parte dell’opinione pubblica. La Procura incaricata di Lava Jato, da parte sua, ha cercato di contrattaccare, denunciando «la diffusione di informazioni sensibili» che rischia di compromettere il lavoro. Che cosa accadrà ora? La risposta non è semplice. Un primo indizio potrebbe emergere dalla prima decisione della Corte Suprema anche se – secondo varie indiscrezioni – sembra improbabile un rilascio immediato di Lula. La discussione sarà, comunque, un test importante sulla questione Moro che sarà vagliata, seppure non in modo formale. A questo specifico aspetto sarà dedicata l’udienza del 25 giugno, chiesta sempre dalla difesa. In quel caso, la Corte Suprema sarà chiamata ad esprimersi sull’annullamento della condanna «per mancanza di imparzialità » da parte del giudice Moro. I giuristi sono divisi sulla questione. Anche perché c’è il problema di come The Intercept sia entrato in possesso dei messaggi. Il portale sostiene di averli ricevuti da una fonte anonima. Vari pm di Lava Jato sostengono che i loro telefoni sono stati hackerati. Se tale accusa fosse dimostrata, verrebbe messo in dubbio il valore probatorio delle conversazioni. La bufera mediatica, tuttavia, difficilmente si spegnerà.