martedì 7 febbraio 2017
Sono quasi mezzo milione e saranno ricollocati in un'area disabitata soggetta ad allagamenti nella stagione monsonica.
I profughi della minoranza Rohingya segregati su un'isola
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Da perseguitati a segregati. Questa l’opzione che si prepara per i Rohingya, almeno per il quasi mezzo milione ora profugo in Bangladesh. Dopo che il 26 gennaio era stato emesso un decreto che di fatto avviava il processo di ricollocazione dei Rohingya, il progetto è stato presentato domenica a 60 diplomatici accreditati in Bangladesh e ai responsabili di organizzazioni internazionali umanitarie e di assistenza sociale.

Durante l’incontro, Abul Hassan Mahmood Ali, rappresentante del ministero degli Esteri bengalese, ha spiegato che il nuovo arrivo, da ottobre, di altri 69mila Rohingya nell’area dove da decenni vivevano fino a 400mila rifugiati ha creato una serie di «effetti negativi sotto vari punti di vista per il distretto coinvolto e per quelli vicini ». Sarà soprattutto la polizia, sotto le direttive di un apposito comitato governativo, a «gestire il trasferimento delle persone, sia registrate come profughi dal Myanmar, sia non registrate, a Thengar Char presso l’isola di Hatiya nel distretto di Noakhali». Non una novità, il progetto di muovere altrove almeno una parte dei Rohingya dai campi della regione di Cox’s Bazar, ricca di traffici frontalieri ma anche unica zona di sviluppo turistico del Bangladesh. Punitiva appare però la ricollocazione a Thengar Char, da tempo individuata.

L’isola di 2.430 ettari, infatti è allagata nella maggior parte durante la stagione monsonica e accessibile agevolmente solo nei mesi invernali. Se le autorità si sono impegnate a costruire infrastrutture adeguate e a proseguire l’opera di forestazione in corso, la scelta di Thengar Char appare soprattutto finalizzata a impedire ogni rapporto tra Rohingya e popolazione bengalese. La stessa ordinanza stabilisce che «i profughi, se identificati all’esterno delle aree loro assegnate, dovranno essere arrestati o rimandati nei campi». L’idea di concentrare in luoghi geograficamente isolati profughi non voluti non è nuova. Per anni, ad esempio, la politica immigratoria australiana si è basata su questo caposaldo, prima con il trasferimento sulla propria Isola di Christmas dei boat-people intercettati in prossimità o dentro le acque territoriali, poi con la loro segregazione nei due campi offshore sull’isola di Manus, parte della Papua-Nuova Guinea, e nella repubblica isolana di Nauru. Le critiche per la drammatica condizione dei campi e la lunga lista di violenze hanno spinto il governo di Canberra a cercare altre opzioni. Proprio l’accordo di fine 2016 per l’invio negli Stati Uniti di 1.250 boat-people è stato al centro della tempestosa telefonata del 29 gennaio tra il premier australiano Douglas Trunbull e Donald Trump, che si è dichiarato contrario all’accoglienza.

Intanto non si spegne l’orrore per la brutalità dei militari e della polizia birmani nelle operazioni di rastrellamento contro presunti militanti di etnia Rohingya evidenziato in un rapporto dell’Alto Commissariato Onu per i Diritti umani diffuso il 3 febbraio. Distruzione di villaggi con il fuoco, spostamento coatto della popolazione, uccisioni di adulti e bambini, sparizioni e stupri hanno evidenziato insieme la persistenza della cultura della violenza e dell’immunità tra le forze di sicurezza e la debolezza del governo birmano in cui un ruolo di rilievo ha la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.

A evidenziare la fragilità della situazione sulla frontiera birmana-benga-lese, ieri guardie confinarie birmane hanno sparato contro pescherecci bengalesi in navigazione sul fiume Naf, lo stesso attraversato negli ultimi mesi dai Rohingya in fuga, che a decine si calcola abbiano perso la vita annegando. Un morto e almeno tre feriti sono la conseguenza dei colpi sparati contro i pescatori che non si erano accorti d avere superato la linea mediana che segna il confine sul fiume e che non sono stati preavvertiti dello sconfinamento.

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