mercoledì 27 ottobre 2021
«Uccisa l'utopia della città-giardino»
Un murale nel quartiere di Marx Dormoy, nel settore nord di Parigi, sospeso fra lampi di creatività e voragini di degrado

Un murale nel quartiere di Marx Dormoy, nel settore nord di Parigi, sospeso fra lampi di creatività e voragini di degrado - D.Z.

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È la storia di un’utopia urbana con le ali spezzate. Quella degli sforzi di chi vorrebbe evitare uno schianto brutale al suolo. La storia d’un quartiere popolare di Parigi, fra le stazioni del metrò Marx Dormoy e Riquet, sospeso fra le svettanti cupole bianche del Sacro Cuore e l’alienazione da tossicodipendenza in cui sono sprofondati in tanti, persino fra chi è giunto da devastate contrade africane e asiatiche. «Guardi, non è stupendo?», ci dice Béatrice, minuta insegnante di lettere in pensione, ammantata di verde, all’ingresso della passerella panoramica in legno che traversa in lungo i Giardini di Eolo. Non si stanca d’ammirare un capannello di giovani sorridenti a petto nudo d’ogni origine etnica, che si fanno i muscoli agli attrezzi pubblici più in basso, godendosi gli ultimi raggi d’un pomeriggio d’autunno. Dagli occhi di Béatrice, residente di lungo corso, traspare la fierezza di vivere qui, a due passi dalla Basilica San Giovanna d’Arco e da Porte de la Chapelle, in uno dei quartieri settentrionali parigini più multietnici.

Muri e piazzette che attirano come calamite pure gli utopisti, fra artisti di strada e associazioni pronte a trasformare Parigi in “città-giardino’. In proposito, i Giardini di Eolo sembravano il capolavoro finale del paesaggista Michel Corajoud (scomparso nel 2014), che in Italia affiancò Renzo Piano nella riqualificazione delle ex acciaierie Falck a Sesto San Giovanni. Ma i quattro ettari verdeggianti, addossati ai binari che fanno capo alla Gare de l’Est, hanno conosciuto un altro destino, divenendo il simbolo parigino più amaro d’una duplice impotenza delle autorità: nella sfida dell’accoglienza dei migranti, così come di fronte al traffico di crack. Giunta sul posto a fine settembre, Anne Hidalgo, sindaca socialista della capitale e candidata all’Eliseo, aveva strigliato l’inazione del governo di fronte «al grande mercato a cielo aperto del crack» nel parco.

Tre giorni dopo, su ordine del ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, la polizia ha sgomberato una cinquantina di tossicomani, spostandoli 3 chilometri più a nord, a ridosso del cavalcavia della circonvallazione, verso Porte de la Villette, al confine fra Parigi e i due comuni poveri di Aubervilliers e Pantin. Una scelta che ha innescato l’ira delle giunte rosse di banlieue, pronte a denunciare la meschinità dello “scaricabarile”. Tante polemiche pure attorno alla successiva costruzione d’un muro voluto dalla polizia per ostruire un tunnel usato per i traffici di crack, fra la capitale e Pantin. Per paura dell’insicurezza, molti abitanti hanno evitato di frequentare i Giardini di Eolo persino nei mesi della seconda e terza ondata di restrizioni anti-Covid, quando gli altri “polmoni d’ossigeno” della capitale erano invece divenuti ancor più cari ai parigini e il fenomeno dello spaccio si è accentuato.

Lo scorso maggio, dopo accese proteste nel quartiere vicino di Stalingrad, proprio il Ministero dell’Interno e il Comune di Parigi si erano accordati per «far confluire » gli schiavi del crack nella zona nord dell’ex parco incantato. «Li spostano da un quartiere all’altro da anni. E la sera, i primi cominciano già a tornare qui», ci dice ancora Béatrice. Insomma, come uno squallido gioco dell’oca: l’esasperazione degli abitanti d’un quartiere, i politici locali che insorgono, i tossicomani evacuati, prima di nuove proteste pochi isolati più in là. Sulla passerella, sopraggiunge energicamente Marc, con la figlioletta nel passeggino. S’infervora presto: «Siamo al colmo dell’ambiguità. Anch’io, che amo visceralmente questo quartiere, non ne potevo più dell’orrore. Un giorno, uno stupro sotto casa, l’indomani una vecchia aggredita per degli spiccioli. Il ministro e la sindaca s’azzuffano, ma cosa fanno? Zero soluzioni sociali, zero spazi d’accoglienza. Eppure, qui accanto c’è un’ex caserma che hanno poi destinato alla moda».

La tempesta è davvero passata? Nei campetti di calcetto adorni di murali variopinti, i bambini non sono tornati. Tranne uno, stranito, che misura in silenzio con lo sguardo la cornice d’una porta. Sul ponte sopra la ferrovia, incontriamo Lilo, padre con radici familiari africane che rincasa tenendo per mano il figlioletto con lo zaino: «È meglio di prima, certo. Qui, la sera, non si poteva più neppure circolare. Ma hanno solo spostato il problema. Adesso, non vorrei trovarmi alla Villette». Da anni, dando manforte alle associazioni umanitarie e ai volontari della parrocchia di Saint-Denys de la Chapelle, tanti abitanti alleviano come possono le sofferenze dei migranti che sostano nel quartiere, spesso afghani o del Corno d’Africa. Anche per questo, un fiotto di sconforto erompe quando la conversazione cade su chi ha viaggiato per poi finire fra le spire del crack, come altri diseredati locali. All’arrivo della primavera, nell’ex parco dei sogni, le famiglie organizzavano festicciole di compleanno aperte a tutti, fra tripudi di accenti diversi. Anche per questo, un impasto strano di sentimenti affiora di continuo ora nella voce della gente, che non riesce a sorridere per l’ultimo sgombero “liberatore”.

Anche il viso di Béatrice pare un caleidoscopio, fra sprazzi residui di meraviglia per l’utopia mai morta nel quartiere della street art e l’attesa fatale dei prossimi acuti di squallore. Sulle ringhiere del parco, un maxistriscione recita: «Non stiamo con le mani in mano! Ci aiutiamo a vicenda!». L’ha appeso un collettivo d’artisti e non hanno osato sfiorarlo neppure i più derelitti schiavi del crack, fiutando forse, fra quelle parole, un po’ di verità, soprattutto durante la fase più dura della pandemia, particolarmente drammatica per i consumatori di droga. Basta un rapido zapping televisivo per constatare quanto la lotta al narcotraffico e il dramma dei migranti alimentino già le diatribe elettorali in vista delle Presidenziali d’aprile. Ma di notte, sotto i raggi proiettati dalla Tour Eiffel scintillante, c’è pure una Parigi che troppo bene sa quanto la miseria in carne e ossa della porta accanto stoni con ogni nuovo slogan roboante sulla grandeur nazionale.

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