mercoledì 20 giugno 2018
Il 19 giugno del 2009 la madre cattolica è stata arrestata con l'accusa, falsa, di blasfemia. Condannata a morte, attende nel carcere di Multan la revisione del processo da parte della Corte Suprema
Asia Bibi attende la fissazione del nuovo processo nel carcere di Multan da 3.288 giorni

Asia Bibi attende la fissazione del nuovo processo nel carcere di Multan da 3.288 giorni

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Nove anni fa, il 19 giugno 2009, la pachistana Asia Bibi, cattolica e di poverissima condizione sociale, veniva arrestata con l’accusa pesantissima di blasfemia. Oggi, a 3.288 giorni dietro le sbarre, su di lei pesa non soltanto una detenzione resa ancora più dura dalla distanza dal marito e dai figli costretti nella clandestinità per evitare di essere oggetto di ritorsione da parte degli estremisti musulmani, ma anche perché sulla sua testa è sospesa una condanna a morte decisa in ultima istanza il 16 ottobre 2014 ma bloccata nell’esecuzione dalla Corte Suprema il 22 luglio dell’anno successivo.

Oggi Asia Bibi è diventata un simbolo. Lo è per i moltissimi, non solo pachistani e non solo battezzati, che non hanno mai smesso di chiederne la liberazione anche presso le massime cariche dello Stato pachistano e a sostenerne le necessità sul piano legale e quelle materiali sue e dei familiari. Lo è per l’islam estremista che ne ha fatto un bersaglio da colpire e con lei chiunque ne tenti la difesa, rendendo assai difficile un giudizio equo, una scarcerazione che comunque dipenderà anche dalla volontà politica e un eventuale espatrio per tutelarne l’incolumità. Ed è ora ancora in attesa della fissazione del processo finale alla Corte Suprema per decidere sulla regolarità del procedimento giudiziario: verdetto che potrebbe annullare la condanna e riportarla in libertà. Con tutti i rischi che questo comporta, perché questa piccola donna cristiana, la cui storia ha passato da tempo i confini del Punjab, ora porta sulla schiena un bersaglio.

Sicuramente, guardando ai nove anni trascorsi e alle sofferenze patite da questa donna fragile nell’apparenza ma dallo volontà e dalla fede incrollabili, risulta ancora più risibile lo spunto che ha dato avvio alla sua vicenda, nata per un diverbio con donne di fede islamica del suo villaggio, Ittanwali, nella provincia del Punjab, sull’opportunità o meno che un non musulmano potesse bere nel loro stesso bicchiere. L’obiezione di Asia Bibi le è costata cara. Ha prima rischiato il linciaggio, poi è stata accusata di oltraggio all’islam con l’approvazione di un leader religioso locale, infine è finita sotto processo in base alla “legge antiblasfemia” che si basa su alcuni articoli del Codice penale approvati sotto la dittatura militare di Zia ul Haq negli anni Ottanta. Una mano allora tesa ai radicali islamici per ottenerne l’appoggio che si è trasformata in una minaccia costante per le minoranza religiose nel Paese ma anche per i musulmani stessi proprio per l’ampia dose di arbitrio che ne accompagna l’applicazione e per l’uso strumentale che ne è stato fatto finora.

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