Pazienti alla St.Luke Foundation di Haiti - Reuters
Il fuoco ardeva già, per parafrasare Pablo Neruda. Con il suo fiotto impetuoso, però, la “benzina-Covid” ha fatto divampare le fiamme per la sterminata regione compresa tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. Solo negli ultimi mesi, hanno divorato gli equilibri precari di Colombia, Nicaragua, El Salvador, Haiti. Il Brasile è una polveriera. Perfino l’isola congelata da una perenne Guerra fredda – Cuba –, ora brucia. E il ghiaccio del Ventesimo secolo sembra sul punto sciogliersi. In tutto il pianeta, la pandemia ha aumentato la conflittualità, come si deduce dai dati dell’ultimo Indice globale della pace. Nel 2020, ci sono state quattro manifestazioni violente o sommosse in più al giorno rispetto all’anno precedente, per un totale di quasi 15mila.
In America Latina, tuttavia, l’incendio assume proporzioni inedite. Perché è l’epicentro globale del virus: con meno del nove per cento della popolazione conta oltre un quarto delle vittime totali, per un totale di oltre 1,3 milioni. Ma soprattutto perché la miccia era già accesa. «Già nel 2019 c’erano stati momenti di instabilità importanti. Il virus ha aggravato problemi strutturali esistenti», spiega Carlos Malamud, storico e ricercatore del Real Instituto Elcano di Madrid. Per una serie di fattori. A partire – sottolinea l’esperto – dal crollo del Pil continentale. Un pugno nello stomaco per un’economia già in affanno in buona parte dei Paesi. In particolare, a differenza di Stati Uniti ed Europa, le nazioni della regione non sono state in grado di elargire risorse extra per tamponare la crisi. «Il Covid, in tal modo, ha puntato i riflettori sul grande nodo irrisolto degli ultimi tre decenni latinoamericani: la tensione tra democrazia ed economia. Ovvero l’incapacità delle democrazie del Continente di includere la gran parte della popolazione. Anzi, la strage prodotta dalla pandemia ha sottolineato ancor più l’inadeguatezza degli Stati di fronte alle necessità dei cittadini, ampliandone ulteriormente il divario con la società», afferma Vanni Pettinà, docente del Colegio de México e visiting professor all’Università Ca’ Foscari. È il carattere ambivalente della democrazia latinoamericana a spiegare l’intensità del rogo rispetto ad altre periferie del globo. In primis l’Africa, dove le indipendenze sono ancora troppo recenti e i sistemi così fragili – spesso addirittura embrionali – da non poter nemmeno essere contestati. «Al contrario, in America Latina uno spazio democratico, inadeguato ma importante, esiste e questo ne consente la messa in discussione», prosegue Pettinà. Cuba, in quest’ottica, appare, a prima vista, l’eccezione: là il Covid ha messo in luce non i limiti della democrazia bensì quelli di un regime a partito unico. In realtà, a una lettura più attenta, le proteste dell’Avana sono lo specchio rovesciato della rivolta cilena.
Tutte e due contestano i due opposti limiti del modello in cui continua a dibattersi l’America Latina post-89: il neoliberismo estremo e il socialismo tropicale, matrice di chavismo e derivati. Alla luce di queste considerazioni, l’incendio latino era in qualche modo prevedibile. Eppure Washington è stata colta in contropiede. Il Continente non è stato tra le priorità diplomatiche dei due candidati alla Casa Bianca. Né della prima agenda internazionale di Joe Biden, concentrata sulla questione climatica, l’avvio di una nuova partnership con l’Europa e la necessità di contenere la crescente influenza strategica di Russia e Cina. Dopo un ventennio di sostanziale invisibilità, la “regione desaparecida” è tornata nei radar degli Stati Uniti. Dall’omicidio del presidente haitiano Jovenal Moïse, il 7 luglio, non c’è giorno che il dipartimento di Stato non faccia una dichiarazione o adotti decisioni – vedi le sanzioni ai dirigenti nicaraguensi ritenuti complici della repressione – sui vicini del Sud. Per gli Usa è una questione di “sicurezza nazionale”. Un’implosione dei Caraibi significa trovarsi un’ondata di nuovi profughi sulle coste della Florida, proprio mentre la frontiera messicana registra il numero di arrivi più alto della storia. Cifra che ulteriori crisi regionali rischiano di incrementare ulteriormente. Quale e quando sarà la prossima? Troppe le variabili in gioco per fare previsioni. «Molto dipenderà dalla capacità delle élites dei vari Paesi di rinegoziare il contratto sociale», sottolinea Malamud. Per Pettinà, nonostante la gravità della congiuntura, il fermento rappresenta un’opportunità di crescita per la democrazia. «A condizione che i movimenti sociali riescano a fare politica, come in Cile», conclude. Insomma, come direbbe un altro poeta Nobel, Octavio Paz, è un <+CORSIVO50>tiempo nublado<+TONDO50> (tempo nuvoloso), in cui, dietro la cortina di nubi, potrebbero celarsi squarci di luce.