sabato 24 agosto 2024
Nuovo ordine di evacuazione nella Striscia, dove ormai l'82,6% della popolazione vive sull'11% del territorio. Un segnale all'Iran la visita a sorpresa in Medio Oriente del capo di Stato maggiore Usa
Palestinesi ispezionano i danni dopo il ritiro delle forze israeliane da Hamad City a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza

Palestinesi ispezionano i danni dopo il ritiro delle forze israeliane da Hamad City a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza - Ansa

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Come la tela di Penelope, la tessitura dei negoziati al Cairo. Un intreccio di condizioni che quotidianamente si disfa e si ricrea, per poi disfarsi di nuovo. Un rompicapo di numeri, che sono poi le vite dei 109 ostaggi e i 323 giorni di agonia dei 2,3 milioni di gazawi, fra cui vecchi e bambini.

I più recenti numeri buttati sul tavolo dai delegati israeliani sarebbero i seguenti, stando alle indiscrezioni filtrate sui media arabi ed egiziani: cinque ostaggi rilasciati vivi ogni settimana, più il veto sui nomi di 65 dei detenuti da scarcerare e l’espulsione all’estero di altri 150. La concessione sarebbe invece quella di ritirarsi da cinque degli otto punti di sicurezza occupati lungo l’asse Filadelfia, la pezzuola di terra larga un centinaio di metri e lunga 14 chilometri che separa Gaza dal territorio egiziano. Un corridoio poroso, denuncia Tel Aviv, trivellato dai tunnel attraverso i quali Hamas si è sempre rifornita di armi. Per un alto funzionario del gruppo sentito dal quotidiano arabo al Sharq al-Awast, pubblicato a Londra, «una condizione per il completamento di qualsiasi accordo è il ritiro completo di Israele dall’asse Filadelfia e dall’asse Natzerim», il corridoio est-ovest spianato dall’esercito per isolare il nord di Gaza.

Domenica sera torna al Cairo la delegazione israeliana: ad aspettarla anche il capo della Cia, William Burns. Quella di Hamas è arrivata ieri per confrontarsi con i mediatori egiziani: esclude però di partecipare direttamente alle trattative. Si limiterà a informarsi su come stanno andando.

Ma altri sono i numeri che urlano la tragedia di Gaza. La fonte è l’esercito israeliano (Idf): secondo le sue stime, nell’area umanitaria designata dallo stesso Idf, di 42 chilometri quadrati, ci sono 1,9 milioni di palestinesi. Ovvero: l’82,6% della popolazione è stipata nell’11% della superficie. Un nuovo ordine di evacuazione è stato trasmesso a chi si trova nella zona orientale di Deir al-Balah e Maghazi, nel centro della Striscia. Lì è stato distrutto un tunnel della Jihad lungo mezzo chilometro. L’altra notte ci sono state incursioni mirate su tutta l’enclave. Sarebbe stato ucciso un alto membro di Hamas, Taha Abu Nada, coinvolto nella produzione di armi. Nel quartiere di Tel Sultan a Rafah, nel sud, scontri a corto raggio e raid avrebbero provocato la morte di decine di terroristi e portato alla luce un deposito di munizioni. Un bollettino quotidiano che fa poco notizia. Come quello rilasciato da Hamas sul bilancio dei morti: sarebbe salito a 40.334, con 69 vittime negli ultimi due giorni e 93.356 feriti.

Gli unici davvero interessati a tessere la tela, e firmare la tregua, sembrano gli Stati Uniti dell’Amministrazione Biden, pronta a vendersi il risultato in vista delle elezioni presidenziali del 5 novembre. A sorpresa, è arrivato in Medio Oriente il capo di stato maggiore dell’esercito americano, Charles Q. Brown. Sbarcato in Giordania, passerà in Egitto e in Israele. Per tirare le fila dei volenterosi della de-escalation e intimare l’ennesimo altolà all’Iran e ai suoi alleati Hezbollah e milizie filosciite in Siria, Iraq e Yemen. Nei recenti colloqui con i ministri degli Esteri tedesco, francese e britannico, il capo della diplomazia iraniana Abbas Araqchi ha ribadito che Teheran «darà la sua risposta in modo preciso e calcolato» all’uccisione del capo di Hamas Ismail Haniyeh e che «la vendetta» si compirà «al momento e nel modo giusto».

Nel silenzio del sabato ebraico, è risuonata l’eco delle ultime polemiche in seno al governo di Benjamin Netanyahu dopo che i media hanno pubblicato la lettera in cui il capo dei servizi interni, Ronan Bar, metteva in guardia premier e ministri dal rischio di «bagni di sangue e stravolgimento della faccia di Israele» se non verrà fermato il «terrorismo» dei coloni estremisti in Cisgiordania. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, si è schierato con capo dello Shin Bet, l’ultraortodosso Ben-Gvir (alle Finanze) ha chiesto invece che sia licenziato. Nella stessa giornata coloni con il volto coperto hanno lanciato pietre, appiccato incendi e danneggiato auto a Rujeib, Susya e in altri villaggi: due i feriti.

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