Una donna vende i suoi prodotti in strada ad Herat - Ansa
Parole fiere, dure, che tuttavia non cedono mai al disprezzo, sempre misurate pur nella tensione di ogni singola frase: a metà agosto un gruppo di 400 attiviste afghane ha inviato una lettera aperta direttamente alla leadership taleban, alla vigilia di quella che potrebbe essere la volta buona per l’avvio di concreti negoziati di pace. «Tra noi, ci sono ragazze ventenni che non sanno come fosse vivere sotto il vostro regime ma anche donne più anziane che invece ricordano bene cosa significhi sottostare alle vostre regole» si legge nel testo. Non ci sono firme in calce, solo un generico riferimento a una «Coalizione di donne afghane». Ma al telefono da Kabul una delle promotrici ci spiega quanto ampiamente l’appello sia stato condiviso.
Nessun nome, nessun bersaglio facile: la questione femminile è ancora terreno incredibilmente rischioso, oggi più che mai urgente in vista del confronto tra taleban e governo per una pace che potrebbe condurre alla spartizione del potere. Chi si espone, rischia: questo mese Fawzia Koofi, ex parlamentare e membro della squadra incaricata di negoziare con i taleban, è stata ferita (in maniera lieve) da uomini armati nella capitale. Martedì scorso è toccato a Saba Sahar, nota regista cinematografica, ma anche attrice e agente di polizia, di recente nominata vice delle forze speciali che sovrintendono alle questioni di genere. Raggiunta da quattro proiettili allo stomaco mentre si recava al lavoro, è rimasta in coma per quasi 20 ore, ma ora sarebbe fuori pericolo.
«Noi donne, forse più di chiunque altro, cerchiamo la fine di questa guerra insensata. Tuttavia, temiamo che il prezzo della pace possa essere troppo alto se perdiamo la vitalità di più della metà della nostra popolazione e le conquiste essenziali degli ultimi due decenni», si legge nell’incipit della lettera, dove si esprime il timore più grande.
«Abbiamo sentito dire da alcuni membri della vostra leadership che siete cambiati, che l’Afghanistan non è più lo stesso paese in cui avete regnato dal 1996 al 2001, e che ora riconoscete il diritto a istruzione e lavoro secondo la sharia e le tradizioni afghane», ma, obiettano le firmatarie, nessun dettaglio è stato fornito su cosa questo significhi in concreto e a quali tradizioni si faccia riferimento.
una quota imposta solo recentemente
«Le donne musulmane in Tunisia, Marocco, Malaysia, Indonesia, Singapore, Giordania, Turchia. Persino in Pakistan godono di libertà di movimento, di un’istruzione, di accesso a occupazione e servizi, mentre noi ancora combattiamo per la sopravvivenza. (…) Non permetteremo che il nostro posto e il nostro contributo alla ricostruzione del Paese vengano cancellati».
In chiusura del testo, arriva la disponibilità al dialogo: «Come abbiamo ripetutamente proposto, siamo pronte ad avere una vera discussione sui bisogni e sulle sfide del nostro Paese. Lo abbiamo fatto con i membri del governo, riteniamo sia altrettanto importante impegnarci con voi». Al telefono chiediamo se la lettera abbia ricevuto risposta. «Di solito la loro risposta è la violenza», conclude lapidariamente l’attivista da Kabul.