Una donna in un ospedale di Kandahar - Ansa
In Afghanistan, l’Emirato attua l’intenzionale e grave privazione dei diritti fondamentali delle donne in quanto tali. Per questo, la persecuzione nei loro confronti si configura come un potenziale «crimine contro l’umanità» in base all’articolo 7 dello Statuto di Roma con il quale il 17 luglio 1998 è stata istituita la Corte penale internazionale a cui il Paese asiatico ha aderito nel 2003. Amnesty International e la Commissione internazionale dei giuristi hanno, dunque, chiesto al Tribunale di aggiungere questo reato all’indagine già in atto nei confronti dei taleban. E hanno esortato gli Stati a processare questi ultimi in base al principio di giurisdizione universale. Le prove portate dalle due organizzazioni sono circostanziate. In primis i decreti che hanno sancito, un passo alla volta, la cancellazione delle donne dallo spazio pubblico: divieto di spostarsi senza un “mahram”, accompagnatore maschio, oltre i 70 chilometri, di uscire a volto scoperto, di proseguire gli studi oltre le elementari, di lavorare per le Ong e le Nazioni Unite, di andare in palestra o in un parco pubblico. Poi, le discriminazioni di fatto che si sommano a quelle legali, come rimozione delle dirigenti dalla pubblica amministrazione, l’obbligo di salire accompagnate su taxi e mezzi pubblici, di evitare qualunque contatto con persone di genere maschili. Restrizioni che hanno costretto tantissime lavoratrici a lasciare l’impiego: già a marzo 2022, il 61 della manodopera femminile era disoccupata. Sulle spalle femminili, inoltre, grava un fardello di innumerevoli abusi. Le nozze forzate – solo per citare il caso più eclatante –, vietate dallo stesso Emirato, sono esponenzialmente aumentate dopo il ritorno dei taleban al potere, soprattutto nelle province più remote. Quante cercano di opporsi al sistema di emarginazione vengono duramente represse. Tra il 23 agosto e il 7 dicembre 2022, per disperdere oltre la metà delle venti principali proteste femminili organizzate a Kabul e nelle principali città, le autorità hanno impiegato eccessiva forza, secondo l’Onu. Le partecipanti e le loro famiglie, inoltre, sono regolarmente arrestate, minacciate, picchiate e torturate. Da febbraio 2022, sono stati conteggiati almeno 30 casi.
A queste si aggiungono le 188 detenute politiche calcolate a giugno 2022. A novembre un intero gruppo di attiviste è stato fermato dopo una conferenza stampa di denuncia. Spesso, per giustificare gli arresti sono imputate di reati morali. Tre giorni fa, a Kandahar, sei ragazze considerate “ribelli” sono state frustate allo stadio per presunti atti osceni. In questo scenario non sorprende la conclusione di Agnés Callamand di Amnesty International: «È più di una persecuzione, è una guerra contro le donne».