Il Genocido Auku Muziejus, il museo delle vittime del genocidio, è opportunamente situato nel sontuoso edificio di Gedimino Prospektas, il viale che i sovietici chiamarono dapprima Stalino e poi Lenino Prospektas e che per cinquant’anni ospitò la sede locale degli uffici dell’Nkvd e successivamente del Kgb. Ma solo dopo il crollo dell’impero sovietico è stato possibile allestirlo. Nelle sue stanze e nelle celle in cui venivano interrogati e torturati gli oppositori politici è possibile – se pure con l’inafferrabile distanza che intercorre fra la cruda realtà di quegli orrori e la loro rappresentazione documentale – immaginare e riannodare nella memoria le ombre di quegli anni bui, nel corso dei quali la Lituania subì dapprima l’occupazione sovietica, poi l’invasione tedesca sotto il nazismo, quindi ancora il ritorno del ferreo tallone di Mosca.
Ma in quel museo, che con sgomento abbiamo esplorato stanza per stanza, c’è una vistosa anomalia: dell’occupazione tedesca tra il 1942 e il 1944, di quella tragica testimonianza dell’Olocausto dove la Gestapo imprigionò ed eliminò 200mila ebrei, un terzo della popolazione ebraica della Lituania, resta una minuta e quasi surreale stanzetta, ove brilla una stella di David disegnata da lampadine multicolori, più somigliante all’insegna di un luna-park che al simbolo di un’identità millenaria che due differenti ideologie (ma così simili, alla fine) avevano provato a cancellare. La stessa Green House, il museo della Shoah, si nasconde timida in un introvabile giardino nella periferia nord della città.
Perché questa damnatio memoriae? Perché lo spettro della persecuzione sovietica giganteggia su quello dell’Olocausto, di cui pure vi sono vistose tracce di fattiva collaborazione in quasi tutte le nazioni occupate dalla Wehrmacht, dal Belgio all’Ucraina, fino agli alleati romeni, bulgari e ungheresi? Dobbiamo partire da qui per tentare di capire come la radicalizzazione dei populismi nell’Europa centrale – pensiamo alla Polonia di Jaroslav Kaczynski, all’Ungheria di Viktor Orbán, alla Slovacchia di Marian Kotleba e dell’ultraradicale Ludová Strana Naše Slovensko, ai Veri Finlandesi di Timo Soimi e in generale all’intero quartetto del Gruppo diVisegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) – stia producendo quella sorta di caricatura del fascismo, che fascismo certamente non è (o non lo è ancora), ma che per tanti aspetti, a cominciare dall’insidioso tentativo di revocare o ammorbidire i diritti civili, in qualche modo gli assomiglia.
Una spiegazione condivisa da molti esiste da tempo: troppo forte è il marchio impresso dal cinquantennale dominio sovietico agli ex Paesi satelliti perché la grande paura del ritorno dell’orso russo – l’animale totemico per eccellenza della tradizione slava – non prevalga sulla breve se pur letale parentesi dell’occupazione nazista. I lituani preferiscono ricordare quell’illusione di libertà che coincise con la visita di Gorbaciov il 20 dicembre del 1989 e che si spense nel gennaio del 1991 alla Torre della televisione, quando i carri armati sovietici T-72 aprirono il fuoco sulla folla che chiedeva l’indipendenza e urlava ai russi: «Fasjisty!». Perché per i lituani schiacciati dal ferro e dal fuoco del disorientato uomo della perestrojka incapace di dominare gli eventi i veri fascisti erano i sovietici. Non meravigliamoci dunque se il termine «genocidio» per i lituani, come per i lettoni, gli estoni, gli stessi finlandesi, per non dire dei polacchi, è associato per automatismo non tanto ai lager tedeschi quanto alla spietata decapitazione sistematica delle loro classi dirigenti e alle purghe perpetrate dalla Russia di Stalin.
Al punto che – com’è oramai noto – in questi giorni Varsavia sta varando una discutibilissima legge che sanziona l’accostamento dell’aggettivo «polacco» ai campi di sterminio. Qualcosa di simile all’interdetto penale che in Turchia proibisce di definire «genocidio » lo sterminio degli armeni. E se in sé l’accostamento fra i lager e il comune sentire polacco è certamente ingiusto e ingiurioso, d’altro canto rivela come non sia ancora rimossa la paura dell’invasione da Est, quello spettro millenario (le grandi migrazioni-invasioni solo da est e dall’Asia potevano provenire) che sonnecchia nell’immaginario slavo e che attecchisce perfino in quelle nazioni – come l’Ungheria e la Repubblica Ceca – in cui più forte è il retaggio mitteleuropeo. Più che un improbabile paleofascismo, dal Baltico alla Pannonia il collante comune è il populismo.
Così diverso da quello dell’Europa occidentale, dalle Le Pen, dai “leave” britannici, dai Donald Trump, dagli Heinz-Christian Strache austriaci, dagli Afd tedeschi, dai nostri Salvini e dai 5Stelle, eppure così contagioso da riuscire a condizionare le agende politiche delle destre democratiche, costrette sovente a far proprie le derive nazionalistiche dei movimenti più radicali per non perdere ulteriormente il consenso. Diverso perché mentre i populismi dell’Europa occidentale appartengono comunque alla tradizione democratica dei Paesi d’origine, quelli dell’Est europeo ne sono sostanzialmente estranei: la linfa neanche tanto occulta dell’autoritarismo di cui sono impregnati trapela senza sforzo ogni volta che si manifesta un pericolo.
Come quello, appunto, del ritorno di Košceij, il drago-serpente delle fiabe russe, cupa e invincibile personificazione del Male, di fronte al quale l’Europa di Bruxelles, l’Europa democratica e liberale dei padri fondatori, della rinascita dalle macerie della guerra appare agli occhi delle fragili nazioni dell’Est europeo un fiacco baluardo del quale diffidare profondamente. Fino a dotarsi – come sta accadendo – di dispositivi e sistemi giuridici meglio adeguati a fronteggiare la mai sopita minaccia che viene da Oriente.