martedì 14 maggio 2024
Un gruppo di genitori dell'associazione Con-Te-Siamo ha scritto un libro per mettere da parte gli imbarazzi e affrontare insieme una situazione complessa. Venerdì a Padova la presentazione
Nemo, il cantante svizzero “binario” che ha vinto l'Eurovision

Nemo, il cantante svizzero “binario” che ha vinto l'Eurovision - ANSA

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Disforia di genere. Incongruenza di genere. Trattamenti affermativi di genere. Modelli affermativi di genere. Transizione sociale. Protocollo olandese. Trattamenti ormonali. Detransitioners. Bloccanti puberali. Persone “non binarie”. Proprio come il vincitore dell’Eurovision 2024, Nemo Mettler. La sua performance e la sua condizione esistenziale secondo cui pretende di non definirsi né uomo né donna, come dice nella canzone The Code con cui ha trionfato alla rassegna musicale, hanno fatto discutere e suscitato polemiche. Il cantante si chiede che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato e racconta che nel viaggio iniziato per ritrovarsi – lungo e difficile, come lui stesso ammette – ha comunque incontrato la libertà. “E non c’è nulla di meglio della libertà che ho guadagnato rendendomi conto di non essere binario”.

Ma si tratta davvero di un traguardo di libertà quello di non riconoscersi né nel maschile né nel femminile? Il rifiuto del cosiddetto binarismo (o maschio o femmina) va oltre il disagio delle persone transgender che sentono di essere nate in quella che a loro parere è una condizione biologicamente sbagliato e auspicano il transito nel sesso opposto. La persona non binaria rifiuta l’identificazione con i modelli di genere stabiliti rigidamente per le donne e per gli uomini, e insegue un’identità ”altra”, senza categorie o senza etichette. Si tratta di libertà o disorientamento? Davvero si può vivere in questo modo con un’identità senza modelli? Davvero si può trovare il proprio equilibrio in una sorta di incertezza permanente? Le storie di genitori con figli transgender che raccontiamo qui sotto aiutano a riflettere e colmare il divario tra il mondo delle idee – giuste o sbagliate che siano - e quello della realtà.

Abbiamo più volte spiegato su queste pagine il problema disforia/incongruenza. Quella sofferenza psichica che induce un numero crescente di giovanissimi a pensare di essere nati in un corpo sbagliato perché il genere percepito e il sesso biologico non sembrano allineati.

Quanti sono questi ragazzi? Le statistiche ufficiali – che comunque non trovano concordi gli specialisti – parlano di un caso ogni 9mila persone, ma si tratta di stime da rivedere. La Tavistock Clinic di Londra, già nel 2018, aveva registrato un incremento assurdo di richieste per il trattamento di minori alle prese con incongruenza di genere, il 4.400% in più. Solo contagio sociale o malessere davvero diffuso e generalizzato? Poi però nel luglio 2022 la clinica, che era un punto di riferimento internazionale per questi problemi, è stata chiusa. Un accertamento disposto dal Servizio sanitario inglese ha considerato negativamente la scelta di ricorrere a interventi considerati inutili e dannosi sia per quanto riguarda i trattamenti ormonali sia per i farmaci bloccanti della pubertà.

E nel marzo scorso il governo inglese ha messo definitivamente al bando questi farmaci, a cominciare dalla discussa Triptorelina, il farmaco che blocca la pubertà con l’obiettivo di lasciare al ragazzo/a e ai medici il tempo di capire come e se intervenire nella transizione da un sesso all’altro? Solo psicoterapia? O anche trattamento ormonale? E la chirurgia? Alcuni esperti sostengono che gli effetti della Triptorelina non sono irreversibili. Ma non esistono ricerche in grado di dimostrare che il farmaco non abbia altre conseguenze a lungo termine. Altri studiosi fanno notare come il blocco dello sviluppo puberale non arresta quello intellettuale-cognitivo. Con il risultato che, al termine del trattamento, è possibile ritrovare ragazzi con una mente da diciottenne in un corpo da dodicenne. Ripensamenti che in questi ultimi mesi hanno coinvolto anche altri Paesi, come Svezia, Finlandia, Danimarca dove il trattamento della disforia di genere era stato impostato soprattutto sul piano farmacologico. Di ieri la notizia che anche i medici tedeschi hanno chiesto di rivedere le modalità di impiego del farmaco bloccante.

E in Italia? L’inchiesta in corso all’ospedale Careggi di Firenze sembra arrivata a una svolta. L’ospedale ha, a sua volta, sospeso la somministrazione della Triptorelina ai minorenni in cura di fronte all’evidenza di aver deciso il ricorso ai bloccanti della pubertà senza le indagini psicoterapiche indicate dalle linee guida. Il reparto avrebbe prescritto i farmaci senza visita neuropsichiatrica, basandosi soltanto sulle dichiarazioni dei piccoli pazienti – età media 11 anni - e dei loro genitori. E, soprattutto, senza quel trattamento multidisciplinare finalizzato ad approfondire il disagio di questi ragazzi. L’unico approccio rispettoso delle diverse situazioni, l’unico che può aprire la strada a uno sguardo più sereno verso la comprensione questa realtà, non solo dal punto di vista scientifico, ma anche antropologico ed esistenziale.

Perché, come si diceva, una cosa sono i dibattiti scientifici sull’opportunità di ricorrere a determinati farmaci oppure di puntare tutto sulla psicoterapia, un’altra è la vita delle persone. Con le sofferenze dei ragazzi e le domande dei genitori. Di fronte a questa confusione crescente, a tante incertezze, a tanti dubbi, come aiutare un figlio che sente di vivere un disagio per la sua identità di genere? A quale specialista ricorrere? Come fidarsi di quello che arriva dalla scienza e, magari dopo qualche tempo, viene smentito? Quale atteggiamento tenere? Come accompagnare quel figlio, quella figlia, in modo rispettoso ma non passivo?

In questo quadro confuso arriva la decisione di gruppo di genitori con figli e figlie transgender e gender diverse che, alla luce dell’esperienza accumulata e degli incontri avuti, ha raccolto in un libro questo tesoro prezioso e “faticoso” di conoscenze.

I genitori fanno parte dell'associazione Con-Te-Stare - Sportello attivo transgender - Centro Onig di Padova ed a loro volta hanno chiamato il loro gruppo Con-Te-Siamo (definizione che già in sé è una dichiarazione d’amore). E il libro si intitola Noi genitori di ragazzi transgender. Quello che non sapete e forse non volete sapere (Il Poligrafo, 2024), a cura di Roberta Rosin e Valentina Cincotto. La prima, psicologa e psicoterapeuta funzionale, docente e supervisore della Scuola europea di psicoterapia funzionale, è presidente dell’associazione, membro del Consiglio direttivo Onig ma, soprattutto, grande esperta del tema transgender. La seconda è a sua volta psicologa psicoterapeuta funzionale e moderatrice del gruppo.


Nel testo, che viene presentato venerdì 17 maggio, alle 17.30 (data significativa in quanto Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia), presso il Centro Linguistico di Ateneo a Padova, promosso e sostenuto dal Dpss Università di Padova (Dipartimento di psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione), si cercherà di definire i contorni di una questione che rimane delicata e complessa, ma sono le voci delle mamme e dei papà, con i loro vissuti di profonda intensità esistenziale, a prendersi tutta la scena.

Spiega Roberta Rosin: «Che il Dipartimento di psicologia abbia voluto promuovere e sostenere la presentazione di questo libro è davvero importante. Sia il Dpss che l’Azienda Ospedale di Padova (unico centro di riferimento regionale veneto per l'incongruenza di genere), hanno sempre dimostrato grande sensibilità per le tematiche delle persone transgender, collaborando in rete, promuovendo eventi, congressi annuali, gruppi di lavoro, ed anche a loro va il nostro grazie».

Nel libro, come dicevamo, sono le storie ad essere protagoniste. Come quella di Nerina Covassin, un figlio transgender 18 anni, Noah. Mamma Nerina lavorava in banca, ora è libera professionista. Un altro figlio di 26 anni sereno e realizzato. Noah – racconta la donna – «ha sempre mostrato una personalità molto forte, diciamo alternativa. Si distingueva per l’abbigliamento, sceglieva colori molto forti, nessun interesse per la moda. E, per questi atteggiamenti, era spesso bullizzato ed emarginato». Nerina accompagna il figlio con prudenza e rispetto, seguendo i suoi desideri. A scuola il ragazzo va benissimo. Passa dal liceo musicale all’artistico e tutti i professori l’apprezzano per l’intuizione e la creatività. Dopo le superiori pensa di iscriversi a una accademia di animazione. E i problemi con l’identità di genere? «Sono esplosi durante il Covid. È stato difficile, ne abbiamo parlato tanto. Ha fatto una lunga terapia con una psicoterapeuta, alla fine la specialista ci ha consigliato un centro specializzato in disforia di genere, ci siamo così rivolti al centro Con-Te-Stare. Il percorso per l’affermazione di genere è durato circa un anno. Ora Noah sta facendo tutti gli esami per iniziare la terapia ormonale. «Non si tratta solo di modificare l’aspetto fisico – spiega Nerina - ma cambia proprio il corpo. Noi vogliamo che Noah sia felice». Soprattutto dal punto di vista affettivo, anche fuori dalla famiglia, e non è sempre facile.

Osserva ancora la mamma: «Una persona transgender non vorrebbe essere tale e deve combattere con tutto il mondo esterno, non è facile imporsi in una condizione così difficile». Un aiuto importante è arrivato dal gruppo di genitori. «Condividendo insieme mi sono tolta il dubbio di essere io la causa di tutto ciò». Difficile? “Adesso riesco abbastanza a pensare mio figlio come maschio, ma la memoria torna spesso a quando era piccolo. Era una bambina, non un bambino». Ne parla con Noah? «Certo, lui comprende la mia difficoltà e mi aiuta in questo passaggio. Poi c’è l’amore che supera tutte le difficoltà».

Un percorso a ostacoli che si ritrova anche nella storia di Alessandra Zanetti, un figlio transgender, nato femmina e che ha adesso ha 18 anni. Com’era da piccola. «È sempre stata una bambina molto intraprendete, molto vivace, molto atletica, ha sempre fatto tanto sport». A scuola? «Benissimo». E l’aspetto? «Si curava, anche se non è mai stata molto femminile». Poi a ciel sereno, intorno ai 16 anni, il coming out. «Non si è mai pronti, ci si sente soli, si ha vergogna a chiedere aiuto. La prima reazione è stata quella di invitarla a pensaci bene, temevo che soffrisse tanto, conoscevo le persone transgender, ma non avevo mai messo a fuoco la situazione. Ho avuto paura e devo confessare di aver fatto molta resistenza».

E ora? «Ho capito che si può comunque essere felici. Il mio compagno ha fatto ancora più fatica di me ad accettare. Ora, dopo circa un anno di terapia mio figlio è rinato, ha iniziato ad uscire, sta pensando al futuro. Prima c’erano solo ombre, c’erano serate in cui passavamo ore in stanza a piangere. Ora siamo sereni, il gruppo genitori ci sostiene, credo sia nostro dovere lavorare per una società più rispettosa e inclusiva».

Ancora diversa l’esperienza di Giovanna Bettin raccontata, come le precedenti e molte altre nel libro. Una famiglia con due figli, un ragazzo di 14 anni e una ragazza transgender di 16 anni. «Per noi non è stata una sorpresa. Da piccola, è sempre stata attratta dai giochi generalmente scelti dalle bambine, quando leggevamo una favola o guardavamo un cartone animato si immedesimava nei personaggi femminili, le piaceva tanto giocare con le bambole e disegnare. Alle elementari – prosegue Giovanna – abbiamo chiesto un consulto ad una psicoterapeuta, ha fatto alcuni test e ci ha suggerito di valorizzare la sua fantasia e originalità».

Ma la vera svolta quando arrivata? «Alla scuola media ha cominciato a chiudersi in se stessa, sceglieva sempre vestiti di taglia molto abbondante, era triste. Abbiamo chiesto un altro consulto e lo psicologo che l’ha conosciuta ci ha detto di attendere perché con la pubertà la maggior parte di questi “vissuti” sfuma. Invece il suo malessere è aumentato e ha cominciato a parlare esplicitamente di identità di genere. Si chiedeva perché era nata maschio, perché non poteva essere una bambina. Voleva provare i miei trucchi e i miei vestiti». Alla scuola media e nella comunità le cose non sono però sempre state facili, pregiudizi e stereotipi sono duri da sconfiggere. Ora, dopo tre anni di un percorso di affermazione di genere, Chanel appare finalmente serena. «Abbiamo iniziato in modo soft il trattamento ormonale. La teniamo molto monitorata, ogni tre mesi gli esami, ogni tre mesi il controllo medico».

Comunque, un percorso complicato? «Eh sì. Ma quando li vedi in difficoltà, quando vedi che soffrono, che non vogliono più vivere, la famiglia deve essere presente per sorreggerli a ricordare loro che non sono sbagliati e che anche loro, come tutti, meritano di essere felici».

Sullo sfondo una domanda che rimane, pesante e densa di conseguenze, nel cuore di tutte le mamme e di tutti i papà con figli transgender: “Stiamo facendo la cosa giusta per il futuro dei nostri ragazzi/e?». Ma né la scienza né l’esperienza sono per ora in grado di dare risposte certe.

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