Madre e figlio ucraini raggiungono un centro di transito a Leopoli - Foto di Giovanni Diffidenti. Per gentile concessione di WeWorld
Le donne e i bambini, le madri e i loro figli. È l’altro volto della resistenza, meno visibile perché il rumore delle armi e l’orrore della guerra non permettono di guardare oltre l’oggi né di distrarsi dalla lotta per la sopravvivenza. Ma il conflitto in Ucraina è anche un drammatico racconto di madri e di figli: l’immagine della donna incinta morta dopo il bombardamento dell’ospedale di Mariupol, l’esodo delle donne e dei bambini in fuga, le famiglie divise perché i mariti e i padri restano a combattere o in attesa di essere chiamati a farlo.
È un angolo buio, uno spazio in cui l’unico margine di speranza in questo momento è l’opera di chi porta un aiuto: le madri e i figli non hanno la forza di sorridere, non ora, non in un posto come un centro di transito a Leopoli. Da qui si passa per uscire dall’Ucraina: 2,3 milioni di profughi, sui quasi 4 milioni che hanno lasciato il Paese, hanno varcato la frontiera a ovest per entrare in Polonia, poi si vedrà. Donne, madri, e bambini, tanti bambini. In Ucraina secondo l’Unicef sono 7 milioni e mezzo i minori a rischio, anche di diventare vittime di una orribile tratta.
«Di cosa c’è bisogno? Di tutto, di cibo per i più piccoli e i neonati, di materiali di base, e poi di un grande aiuto psicologico perché il trauma che stanno vivendo i bambini è enorme, e sappiamo già ora, lo dicono gli esperti, che tra un paio di mesi esploderà con maggior forza e sarà peggio». Olimpia Sermonti, 30 anni, romana, pochi giorni fa era in Burundi, a Bujumbura, impegnata in un progetto di cooperazione allo sviluppo dell’ong per la quale lavora come operatrice umanitaria, WeWorld. Con lo scoppio del conflitto è stata catapultata in Ucraina a coordinare e organizzare la gestione dell’emergenza per dare vita, nell’ambito delle azioni promosse dall’Onu, a percorsi di supporto psicologico e psicosociale, ma anche assistenza economica d’emergenza per i profughi e sostegno ai volontari che da quando è scoppiato il conflitto lavorano senza sosta in situazioni estreme. Olimpia parla mentre si sentono suonare le sirene, la quinta volta oggi, dice, e si sposta per raggiungere un punto sicuro.
«Sono giorni che praticamente non dormo, e se non dormo io immaginate come stanno i bambini. Sono traumatizzati: se sentono anche solo una porta che sbatte hanno una reazione di paura immediata. L’altro giorno un bambino ha aperto la merendina facendo scoppiare la confezione: nella palestra è stato il panico. Quando suonano le sirene è peggio. Cerchiamo di aiutarli con di psicologi, offrendo loro momenti di gioco. Abbiamo aperto spazi amici dei bambini, nei centri di accoglienza anche opportunità per seguire la scuola a distanza. Ma dobbiamo fare i conti con uno stress elevatissimo. Gli spazi per i bambini sono luoghi sicuri e dovrebbero servire anche ai genitori, soprattutto le madri, perché possano tirare un po’ il fiato, riposarsi un paio d’ore, ma è dura: i bambini non riescono a staccarsi, non appena escono dallo sguardo del genitore si agitano ed è difficile tenerli. Faticano a stare soli, hanno il terrore di essere abbandonati. I ragazzi ai quali offriamo la possibilità di lezioni a distanza non riescono a concentrarsi, resistono tre minuti: vengono da due anni di pandemia e adesso la guerra... ».
Madre e figlio ucraini raggiungono un centro di transito a Leopoli - Foto di Giovanni Diffidenti. Per gentile concessione di WeWorld
Aree gioco per bimbi, baby sitter, Dad: i bisogni, alla fine, sono gli stessi del mondo in pace. Cambiano i toni, che diventano cupi. Uno vorrebbe trovare segni di speranza, ma ci sono momenti della storia in cui l’unico sollievo è l’impegno di chi offre il proprio aiuto, o vedere che l’essere umano resiste, e aspetta, chiedendo una sola cosa: che la guerra finisca. «Fate che smetta! Fatela finire!», ha detto una donna anziana quando le hanno domandato di cosa aveva bisogno. La resistenza non è solo un uomo armato. Olimpia racconta di un’altra donna che era qui a Leopoli quando hanno bombardato Mariupol, dove ancora si trovavano i figli e il marito: «L’ho incontrata quando ha potuto riavere i figli vicini, al sicuro. Poteva mangiare una sola volta al giorno, non aveva più niente, un solo vestito, le ho chiesto di cosa aveva bisogno, lei stringeva le mani dei figli affondando le dita e le unghie nella loro carne, mi ha risposto dicendo: 'Lascia perdere me, adesso aiuta gli altri che hanno bisogno'. C’è questo coraggio, questa forza d’animo delle donne che fa impressione».
Olimpia non ha figli, confida che in momenti così è difficile pensarci e anche solo immaginarlo. Visto dall’Ucraina, il tema della natalità nel mondo sviluppato rende ancora più manifesto il privilegio dei Paesi che vivono in pace, e forse dovremmo fare tesoro di questa lezione. «Vedo da vicino quanto è impegnativo essere madre, in situazioni come questa si capisce che le donne stanno portando un peso enorme: si sono allontanate dai compagni e dai mariti, devono fare il primo e il secondo genitore, gestire l’ansia che i figli vivono perché il padre è rimasto indietro, non c’è, è nelle zone dove si combatte e cadono le bombe. Le donne devono essere forti. L’altro giorno una ragazza con un bambino in braccio ha chiesto dei fazzoletti, ed è scoppiata a piangere. Lacrimava, e con la mano copriva gli occhi del figlio: non voleva che la vedesse piangere, si tratteneva, non intendeva mostrare la fragilità e il dolore, la sua vulnerabilità, al bambino. È la forza che si sprigiona quando si è madre».
Uno dei pesi maggiori per i volontari, in contesti estremi, è dover convivere con il senso di impotenza. Essere impegnati, lavorare, aiutare, donare sé stessi e sapere che ci sono persone che non si riesce a soccorrere, bisogni che non si possono soddisfare, risultati che non arrivano. A volte, semplicemente, come un genitore, non puoi fare niente di più che esserci. A Leopoli, e di certo altrove in Ucraina, i bambini non ridono: «Dicono che è normale, gli psicologi spiegano che succede. I volontari propongono attività per farli divertire, distrarli dall’orrore della guerra, ma i bambini non ridono più, sono terrorizzati. Si sentono ancora in guerra».
Il sole è calato, viene scuro, la sirena dell’allarme ricomincia a suonare. Di cosa hanno bisogno queste mamme e questi figli? «Di tanto, ma come prima cosa vogliono solo che la guerra finisca».