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Nel panorama sempre più corposo delle startup del tessile sostenibile italiano – che fioriscono a iosa sull’onda di idee giovani e fresche per poi, a volte, azzopparsi di fronte ad ostacoli non sempre imputabili ai loro ideatori – ce n’è una che sorprendentemente sta prendo piede per il suo carattere innovativo. Si chiama Menaboh e si distingue da tutte le altre perché unisce la necessità di una moda più attenta all’ambiente al desiderio di ognuno di vestire capi di tendenza talmente in linea con il proprio stile da sembrare “cuciti addosso”.
In effetti è proprio questo quello che fa Menaboh: mette in contatto i suoi clienti con designer, sarti e artisti per trasformare e ridare vita a capi abbandonati nell’armadio che possono tornare in circolo al posto di nuovi vestiti. Così da realizzare il sogno di tante donne, e oggi di tanti uomini, di avere – anche solo per qualche giorno – uno stilista personale, senza impattare sull’ambiente e senza rinunciare ad outfit al passo con i tempi.
Menaboh prende il nome dalla scena di un film icona per gli amanti della moda, tratto dall’omonimo romanzo di Lauren Weisberger, Il Diavolo veste Prada, in cui Andy, giovane neoassunta dalla influente rivista di moda Runway, porta a casa della direttrice Myranda – interpretata da una magistrale Meryl Streep – il book con le bozze del giornale da approvare prima che vada in stampa. Il Menabò appunto. «Menaboh rappresenta per noi quindi la possibilità di riscrivere le regole della moda e l’h finale (che aggiunta a “bo” diventa “boh”, quindi “non so”) ci contraddistingue come qualcosa di inaspettato», racconta Gaia Rialti, la poco più che trentenne fondatrice della prima realtà in Italia che fa upcycling. Ovvero che trasforma un capo di abbigliamento inutilizzato in qualcosa di nuovo, unico e rispettoso per l’ambiente.
«L’idea mi è venuta durante la pandemia, quando ho lasciato Milano e sono tornata a casa dei miei», continua. È in Toscana a Montevarchi, alle porte di Firenze, che Rialti – da tempo nel mondo della moda – si avventura nella soffitta di famiglia e trova vecchi tesori, abiti vintage della madre che vorrebbe indossare. Si interroga su come fare e chiede a due amici designer di rinnovarli per lei. Quello che nasce come un esperimento personale in una soffitta diventa nel 2023 – grazie alla possibilità di accedere a bandi e programmi di accelerazione di cui possono servirsi le startup – un modello di business alternativo al consumismo sfrenato. Con l’obiettivo di allungare il ciclo-vita dei capi adattandoli alle tendenze e «amandoli più a lungo», aggiunge Rialti. Che dopo la pandemia prende un anno di aspettativa (per poi licenziarsi), mette un annuncio su Linkedln e seleziona un pool di una trentina di persone che oggi sono la squadra di Menaboh.
Ma come funziona la startup? La persona che vuole rigenerare un capo sceglie – sulla base di immagini di lavori pregressi – il creativo che sente più affine al suo stile tra quelli presenti sul sito, invia la foto del vestito da trasformare, indica il suo budget di spesa e riceve gratuitamente un bozzetto con l’abito modificato. Se l’idea del designer incontra il favore del cliente, l’affare è fatto. Il capo viene consegnato al punto di scambio più vicino, dove poi viene ritirato nella sua nuova veste. In questo cammino Menaboh assicura da un lato la selezione di designer affidabili e di qualità e, dall’altro, che tutto il percorso logistico vada liscio fino a meta. «Abbiamo notato quanto sia importante la fase della proposta da parte del creativo, perché spesso il cliente non ha idea di cosa quel capo possa diventare», spiega la fondatrice. «Mi piacerebbe un giorno – aggiunge – avere un numero tale di designer da coprire le città più importanti del Paese, così che questo passaggio intermedio possa avvenire di persona e con un impatto ancora più sostenibile sull’ambiente».
I prezzi dell’upcycling italiano al momento variano dai 20 agli 80 euro e il popolo di Menaboh è composto da un’ottantina di clienti, principalmente donne e millennials. È chiaro però che si tratti di un settore in espansione. A dirlo sono i numeri più recenti, presentati al Luxury Summit di Milano dello scorso anno, secondo cui il mercato della moda raggiungerà al 2030 un valore pari a 3mila miliardi di euro. Upcycling, riparazioni, rivendite e noleggio ne costituiranno il 23%. Non solo, oggi l’80% delle persone usa il 20% dei vestiti che ha nell’armadio e ci sono tanti designer in giro per il mondo che cercano lavoro. «Menaboh può fare da ponte tra questi due mondi e può farlo a livello internazionale», l’ambizione di Rialti, che lamenta in Italia la mancanza di una cultura della rigenerazione del tessile a partire dai consumatori. «In pochi sanno cosa sia l’upcycling e l’abito di seconda mano viene ancora percepito come qualcosa di noioso o addirittura di sporco». Quando invece ti dà la possibilità di avere un capo unico che è stato magari di tua madre o di tua nonna. E di fare anche qualcosa per l’ambiente.