giovedì 27 giugno 2024
La polarizzazione e la rottura del dialogo: saper andare oltre la guerra
COMMENTA E CONDIVIDI

«Le convinzioni che riteniamo più sicure non poggiano su altra garanzia che il costante invito al mondo intero a dimostrarle infondate», così John Stuart Mill scriveva nel 1859, aggiungendo che l’intera umanità non ha più ragione di mettere a tacere l’opinione opposta di un’unica persona di quanta non ne abbia quell’unica persona di mettere a tacere l’opinione dell’intera umanità; tutte le opinioni, infatti, servono al dibattito per raggiungere la verità. Un elogio al dialogo.

Così la filosofia. L’attualità invece vede crescere contrapposizioni che diventano emotive, poi viscerali e insanabili. La polarizzazione non è solo un fenomeno da social network, ma è la struttura portante della comunicazione e della politica di questi anni, e si riverbera nelle dispute globali e locali: il dialogo è sempre più difficile, la forma di questi anni sembra quella della guerra, del conflitto violento, dell’aggressività, dai campi di battaglia alle manifestazioni di piazza, dalle campagne elettorali ai rapporti familiari, fino ai post di Instagram.

La guerra. L’idea della guerra. La funzione della guerra. L’utilità della guerra. L’inevitabilità della guerra: «La controversia degli stati può quindi, in quanto le volontà particolari non trovano un accordo, venir decisa soltanto dalla guerra», scrisse Hegel in uno dei pochissimi libri che volle pubblicare in vita, dal titolo Lineamenti di filosofia del diritto. Ma, aggiungeva, la guerra è necessariamente transitoria perché gli Stati, che per Hegel sono come degli organismi, tendono a tornare alla migliore condizione di vita per sé, secondo i propri interessi e il proprio benessere, diremmo oggi, che non è la condizione data dalla violenza perpetua. È dunque una pace “accidentale”, che torna ciclicamente per interesse. O, secondo Kant, per la natura stessa degli Stati che, come avviene fra gli esseri umani, alla fine sono portati a cooperare, a livello internazionale in questo caso, per migliorare la propria condizione e così, in linea teorica, la pace potrebbe perpetuarsi ed essere un orizzonte a cui il mondo tende.

Magari fosse oggi quell’orizzonte.

Sempre più la guerra da strumento politico, geopolitico o economico diviene – a maggior ragione nel mondo globalizzato – uno strumento culturale, una metafora e un simbolo di un modo di relazionarsi. È un approccio possibile e realizzabile, così che diviene una parte identitaria di uno Stato o di un gruppo sociale o di un’idea politica. Nessuno vuole veramente la guerra, perché comporta il rischio di perdere e di morire, ma essa è utile, funzionale, effettiva e, in ultima analisi, necessaria. Se ne rese conto perfino Bertrand Russell, filosofo logico-matematico che vinse il premio Nobel per la letteratura in quanto «campione degli ideali umanitari e della libertà di pensiero». Era un pacifista convinto, attivista e teorico dell’antiviolenza, all’inizio del Novecento guidò un movimento contro la leva obbligatoria e fu multato, gli pignorarono i libri, lo sospesero dall’insegnamento a Cambridge e venne pure imprigionato. Ma non rinunciò alla speranza: fu lui, pochi anni dopo, a proporre un invito a pranzo a Hitler, offrendogli il miglior vino, per tentare di portarlo a miti consigli, e non era una boutade, ma una proposta vera da parte di un pari inglese.

Come sappiamo, non se ne fece nulla e nel 1940 anche Russell dovette cedere alla forza e alla necessità (in senso filosofico) della guerra. Nacque così la sua teoria del “pacifismo relativo”, che prevede in casi eccezionali, in assenza di alternative, quando l’aggressore non è disposto a dialogare e anzi impone il suo dominio con la violenza, la possibilità di resistere con le armi, una possibilità ritenuta moralmente necessaria. Ecco di nuovo il termine filosofico “necessario”, cioè qualcosa che discende rigorosamente e inevitabilmente dalle sue premesse logiche. Dunque per la filosofia la guerra è anche logica, in alcuni casi. Ma è la logica della guerra che sta prendendo, o ha già preso, il sopravvento, ed è cosa ben diversa: una logica che pone la contrapposizione violenta come paradigma di confronto ovunque, sulle frontiere fra Stati e sui social network.

Ancora una volta è il framing, cioè l’influenza sul nostro modo di vedere le cose che questo modello porta, ad essere pericoloso per il futuro. Se il modello della guerra e non quello del dialogo diviene lo strumento di relazione più efficace, economico e funzionale, o addirittura l’unico possibile, anzi necessario, che adottano i governi, i partiti, le correnti di pensiero, i talk show, le community online, allora davvero siamo nei guai. Ma se allarghiamo lo sguardo alle molte componenti interrelate delle guerre vere e le consideriamo secondo una epistemologia della complessità, quindi non meccanicistica o gerarchica, ma aperta al cambiamento, allora vediamo cose come le disuguaglianze, il riscaldamento globale, le migrazioni, la cultura della violenza, la superpotenza dei mercati finanziari, l’identitarismo esasperato e così via: forse da qualche parte in quei mondi troviamo una fessura in cui infilare una prima parola nuovamente dialogante e finalmente utile.

© riproduzione riservata

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: