«I stay woke» (io sto all’erta): così cantava nel 2008 Erykah Badu, “la madrina del soul”, nel brano Master Teacher. È a lei che si attribuisce il primo uso recente della parola woke, che l’artista ebbe modo di spiegare così: «Significa semplicemente prestare attenzione a ciò che accade intorno a noi che non ci lasciamo facilmente influenzare dai media, o dalla folla arrabbiata, o dal gruppo. Insomma: significa rimanere concentrati, prestare attenzione». In realtà il fenomeno del wokismo ha preso esattamente la direzione opposta: il diventare svegli è andato a braccetto con la cancel culture, con episodi di degenerazione spesso assurda quali la riscrittura di fiabe e opere letterarie e il rifacimento di film in nome del politicamente corretto. Ma il termine woke ha origini ancor più lontane e si può farlo risalire al movimento degli anni Sessanta per i diritti civili della popolazione nera degli Usa, tanstra che anche Martin Luther King nel 1965 tenne un discorso, dal titolo “Remaining Awake through a Great Revolution” (Rimanere svegli durante una grande rivoluzione), due anni dopo il celebre “I have a dream”. Ma in questo articolo vogliamo occuparci di un altro fenomeno attuale di cui è testimonianza il volume Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia scritto da Carl Rhodes e da poco uscito in Italia presso Fazi editore (pagine 316, euro 20).
Il mondo del capitalismo woke, come illustra Carlo Galli nella prefazione, è «derivato dalla filantropia protonovecentesca e dalla “responsabilità sociale delle aziende” degli anni Sessanta, cioè da un impulso del capitale a uscire dalla sfera meramente economica per legittimarsi e fronteggiare alcuni problemi che esso stesso genera». Fin qui verrebbe da dire, niente di male. Qualcuno forse ricorda la polemica degli anni Ottanta in Italia fra economisti e imprenditori: chi sosteneva l’esclusivo scopo del profitto per chi fa impresa, chi invece sollevava le istanze dell’etica. E alcuni si richiamavano al diverso modello aziendale proposto nell’immediato dopoguerra da Adriano Olivetti, il quale riteneva che un’impresa dovesse generare profitto per il benessere non solo di proprietari e dirigenti, ma di tutti i lavoratori. Anzi, anche la società circostante doveva beneficiarne. Insomma, l’imprenditore vero doveva fare cultura. Un modello purtroppo franato dopo la sua morte: da allora, almeno in Italia, c’è stato spazio solo per il capitalismo efficientista. Al di là delle critiche di eccessivo paternalismo che si possono muovere all’imprenditore di Ivrea, gli va riconosciuto di avere avuto una visione. Ma oggi le sfide sono assai più complesse. E dietro al progetto del grande capitale di superare la distinzione fra econoto mia, politica e società, c’è l’idea di sostituirsi direttamente agli Stati. Come? Dandosi una patina di presentabilità, sociale e finanche morale, unendosi alle battaglie di movimenti di protesta come Me Too o Black Lives Matter, oppure sponsorizzando le cause ambientali e quelle dei diritti civili.
Dice ancora Galli che dietro questo attivismo c’è in realtà «una tattica di marketing, grazie alla quale le aziende mantengono la presa sugli orientamenti profondi e mutevoli della società e riposizionano il proprio brand in modo da migliorare i bilanci». Il libro di Rhodes, professore di Teorie dell’organizzazione e preside della Uts Business School presso l’University of Technology di Sydney, in Australia, è pieno di esempi di questa tattica cui anche i consumatori italiani sono ormai avvezzi. Cita il marchio di abbigliamento Zara, che ha lanciato una collezione di “abiti senza genere”, o la Adidas che ha condotto una campagna per rimuovere le mascotte dei nativi americani dalle uniformi delle squadre sportive; ancora, l’azienda di gioielli di lusso Tiffany, che ha comprato una pagina sui quotidiani australiani per invitare il governo a intervenire contro i cambiamenti climatici, o la Nike, che ha lanciato una campagna pubblicitaria con Colin Kaepernick, il giocatore di football sospeso dalla lega professionistica per essersi unito alle proteste contro le uccisioni di afroamericani da parte della polizia.
Le grandi aziende sono diventate «il principale tutore culturale della sinistra», come ha commentato sulla National Review l’editorialista Philip Klein? Rhodes commenta: «Pensate a celebrità super-ricche come Leonardo DiCaprio e Katy Perry, che volano in Sicilia a bordo di un jet privato per partecipare, in un resort di lusso, a un vertice sul clima finanziato da Google. Risulta difficile non essere scettici circa l’autenticità, o quantomeno la coerenza, del loro impegno politico. E un simile cinismo porta a ritenere che essere woke, il non abbassare la guardia, non sia altro che il dichiararsi seguaci di una moda etica a favore di cause politiche all’apparenza radicali, come i movimenti contro il sessismo, il razzismo e altre forme di discriminazione e oppressione. Altre cause apparentemente woke sono l’ambientalismo, la consapevolezza circa la salute mentale, i diritti Lgbtqi+ e la disuguaglianza economica».
Come si vede, tante sono le motivazioni alla base del capitalismo woke, alcune condivisibili altre assai meno, ed è inevitabile che, così come sulla cancel culture, si scatenino le contrapposizioni. Rhodes evita di cadere nel tranello, e se da una parte mette in evidenza le contraddizioni del neoliberismo che vuole presentarsi come etico, dall’altra rileva come nel fronte conservatore anglosassone, alleato con il neoliberismo puro, si sia scatenata una lotta senza quartiere che accomuna le imprese che vogliono essere woke e le cause che sostengono o dicono di sostenere.
L’esempio più clamoroso è quello di Rod Dreher, redattore della rivista The American Conservative, già messosi in luce negli anni passati per il libro L’Opzione Benedetto, un invito ai cristiani a creare oasi perfette in un mondo ritenuto ormai totalmente ostile al cristianesimo. Secondo Dreher, già metodista poi cattolico e infine approdato all’ortodossia, il capitalismo woke è una forma di «imperialismo culturale» e di «totalitarismo morbido», in quanto «costringe le persone a partecipare a una rivoluzione culturale». In sintesi, è oggi il vero nemico del mondo conservatore. Viene così citato il caso dell’Ikea, che ha licenziato un suo lavoratore che aveva disapprovato il sostegno dato dall’azienda al gay pride perché in contrasto con le sue convinzioni religiose. Qui verrebbe da dare ragione a Dreher, se non fosse che dietro questa battaglia contro il capitalismo woke c’è la difesa pura e semplice del capitalismo d’antan, un modello che vede nel fare impresa solo la ricerca del profitto senza curarsi della disuguaglianza sociale ed economica.
Una polarizzazione che ben spiega Rhodes: «Da un lato abbiamo la posizione di chi, essendo woke, sostiene che le imprese dovrebbero essere attivamente coinvolte in cause politiche progressiste a beneficio della società; dall’altro, il punto di vista politicamente conservatore secondo cui le imprese non dovrebbero ficcare il naso nella politica, concentrandosi invece sul successo commerciale a beneficio dei propri azionisti». Due posizioni entrambe sbagliate: la vera posta in gioco con il capitalismo woke è che non è altro che un modo per estendere il proprio potere e dunque «va combattuto e contrastato su basi democratiche», perché le multinazionali finiscono per sconfinare nella vita morale e politica dei cittadini.. E affonda ancor più i colpi: «Il caso di Amazon esemplifica una delle palesi contraddizioni del capitalismo woke. Per un verso, infatti, le aziende sposano e sostengono cause sociali considerate progressiste: nel caso di Amazon, il cambiamento climatico, la povertà, l’istruzione, il matrimonio omosessuale e i diritti umani. D’altro canto, però, il loro modo di gestire gli affari dimostra fino a che punto giungano l’avidità e lo sfruttamento capitalistico». Per l’autore va abbandonata l’idea «che le imprese possano aprire in qualche modo la strada politica per un mondo più giusto, equo e sostenibile». Si tratta insomma di essere davvero woke, di aprire gli occhi ed essere consapevoli che malgrado le loro conclamate intenzioni non saranno le grandi imprese a evitare la distruzione dell’ambiente e a creare una maggiore eguaglianza sociale ed economica, ma sono gli Stati a doverlo fare. E i cittadini che ci vivono.