lunedì 6 novembre 2023
Cresce il movimento culturale che promuove nuovi stili di organizzazione e di partecipazione alla vita urbana, orientati alla cooperazione tra cittadini, istituzioni e Terzo settore
Dalle Smart city alle Co city: modello collaborativo per le città del futuro

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Corre l’anno 1994 quando l’Ibm inizia a utilizzare l’espressione smart city per descrivere le città del futuro. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata. Lo sviluppo della potenza di calcolo, la produzione massiva di dati generati da sensori, l’ideazione di algoritmi sempre più performanti hanno reso una semplice espressione realtà tangibile. L’internet of things e l’intelligenza artificiale, poi, hanno concretizzato l’idea con altissimi livelli di automazione e di efficacia. Di questo modello parlano documenti accademici e proposte di autorità pubbliche. Ma siamo sicuri che sia la sola visione di città auspicabile?

Accanto a quello delle smart city, nel contempo, si è sviluppato un movimento culturale che promuove nuovi stili di organizzazione delle città e di partecipazione alla vita urbana, orientati alla collaborazione e alla cooperazione tra cittadini e tra cittadini, istituzioni e terzo settore. Questo nuovo paradigma urbanistico, ben descritto anche sotto il profilo giuridico in Le città collaborative ed eco-sostenibili di Giorgia Pavani, Stefania Profeti e Claudia Tubertini (il Mulino, pp. 150, euro 16), è ampiamente articolato. Cominciano così a fare capolino le Human Rights city, le Sharing city, le Green- Eco- Zero carbon city, le Circular city, che perseguono fini diversi da quelli offerti dalle smart city. La sostenibilità ambientale, l’inclusione sociale, la promozione dei diritti umani a livello locale, la cura condivisa dei beni comuni diventano così il centro della vita pubblica. A raccogliere in una stessa cornice questi modelli inediti di vita cittadina è l’idea che ad animare le città siano le pratiche collaborative tra residenti. A fianco di questi modelli ne emerge un altro, quello delle Co-city. Questo «cattura e riflette i modi in cui alcune città si stanno muovendo o sono spinte ad abbracciare pratiche che favoriscano l’innovazione sociale nella fornitura di servizi urbani, stimolino le economie collaborative come motore dello sviluppo economico locale e promuovano una rigenerazione urbana inclusiva ed equa delle aree degradate». Lo sostengono, in Co-Cities. Innovative Transitions toward Just and Self-Sustaining Communities (MIT Press, pp. 332, euro 43), Sheila R. Foster e Christian Iaione, entrambi docenti di diritto e politiche urbane, rispettivamente alla Georgetown University di Washington e alla Luiss di Roma. I due giuristi definiscono il quadro teorico e i principi di progettazione delle città per promuovere la gestione partecipata dei beni comuni urbani.

A fare da sfondo al loro lavoro è la teoria dei commons sviluppata dell’economista e premio Nobel Elinor Ostrom. Avvalendosi di una ricerca empirica sulle pratiche collaborative in centoquaranta città di tutto il mondo, tra cui Bologna, Reggio Emilia, Torino e Napoli, Foster e Iaione propongono di considerare la città stessa un bene comune. «Esploriamo l’idea – scrivono – che l’infrastruttura urbana e altre risorse della città possano essere governate dai residenti in maniera collettiva e cooperativa, condividendo questa responsabilità con altri attori». Lo stesso avviene per i dati prodotti dalle tecnologie digitali. Le co-city non rifiutano il loro uso, ma vogliono evitare che vengano impiegati per avallare finalità private. Le politiche data based, nelle co-city, servono a migliorare le infrastrutture urbane in una modalità collaborativa. Si potrebbe evitare così che «le smagliature, insite nelle smart city», le travolgano per un’eccessiva presenza di interessi aziendali e per il realizzarsi di politiche fortemente centralizzate. Foster e Iaione, come controproposta, individuano i cinque principi alla base delle co-city. Se la co-governance, articolata in maniera “policentrica” sul territorio, si dispiega su diversi livelli, sia con accordi bilaterali sia con progettazioni più estese tra autorità pubbliche, enti commerciali, associazioni civiche, scuole e università, da sola però non basta.

Sullo sfondo sono necessari uno «Stato capacitante», che promuova e non inibisca la partecipazione delle comunità nella gestione dei beni comuni, e lo sviluppo delle pool economy. Queste, incentrate più che sulla condivisione sulla collaborazione, prevedono che «diversi attori combinino i loro sforzi per creare beni urbani, servizi e infrastrutture», implementando un «approccio peer-to-peer tra residenti, trasformati così da utenti in produttori e proprietari, nella co-progettazione e co-produzione dei beni e dei servizi». Per rendere realizzabile il progetto, oltre alla «tech-justice», che garantisca «l’accesso, la partecipazione e la cogestione e/o la comproprietà delle infrastrutture urbane tecnologiche e digitali e dei dati», è indispensabile lo sperimentalismo. Se, da un lato, esso rende possibile il realizzarsi di comunità di pratiche «adattive, iterative e legate a un luogo», dall’altro, «trasforma le città in laboratori di apprendimento per promuovere una transizione ecologica e democratica e lo sviluppo sostenibile».

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