mercoledì 5 giugno 2024
Banche e fossili, legame inestricabile
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Ricordate l’Accordo di Parigi alla COP21 a fine 2015? Aveva alimentato la speranza che il mondo avesse finalmente compreso l’urgenza di invertire la rotta, di ridurre per progressivamente eliminare la tossica dipendenza del modello economico dalle fonti fossili di energia, di cominciare soprattutto a smettere di finanziare quella dipendenza con massicce risorse pubbliche e private. Non è andata così, non sta andando così e non si vede nulla all’orizzonte che autorizzi a sperare che non continuerà ad andare così. Lo attestano indagini sfornate a ritmo pressoché quotidiano nel mondo sulla “finanza fossile” e le “banche fossili”, cioè sulla grande finanza internazionale che continua ad alimentare l’industria fossile, di gran lunga la principale responsabile di quello che il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, chiama «collasso climatico».

La stessa grande finanza che a parole dice di essere impegnata a contrastare la crisi climatica, a tener conto dei fattori Esg (ambientali, sociali e di governance) e a porsi obiettivi “net zero” – entrambi questi ultimi screditati ormai al punto che basta menzionarli per attirare sospetti di greenwashing –, e che invece di fatto continua col business as usual fossile. Per stare al passo con questo fuoco di fila di rapporti bisognerebbe curare un canale social dedicato h24 e forse non basterebbe neppure. Si può però puntare il faro almeno sui rapporti più corposi e autorevoli. È il caso di Banking on Climate Chaos, realizzato da otto fra le più importanti organizzazioni non governative internazionali che monitorano costantemente finanza e banche fossili. Probabilmente il più esteso e accurato nel suo genere, giunto alla quindicesima edizione, il rapporto è una fotografia impietosa, sconcertante, irritante dell’ipocrisia della grande finanza internazionale.

Dice infatti che dal 2016 le più grandi 60 banche del mondo hanno sostenuto finanziariamente l’industria fossile con 6.900 miliardi di dollari, di cui 705 miliardi solo nel 2023. Gravissimo soprattutto che larga parte di queste cifre enormi siano andate all’espansione del settore, che a detta di tutte le agenzie internazionali competenti in materia è la prima cosa da evitare per contrastare la crisi climatica: l’espansione è stata finanziata con 3.300 miliardi di dollari nel periodo, 347 miliardi solo nel 2023. Nella miriade di dati, interamente disponibili e ricercabili in modalità interattiva sul sito Internet del rapporto ( l’indirizzo è bankingonclimatechaos. org), si trova anche il contributo delle imprese italiane.

Eni è presente ai primi posti (quinta) fra le società del settore oil&gas che nel 2023 hanno ricevuto più finanziamenti per progetti di espansione. Mentre nel settore finanziario ci sono Unicredit e Intesa Sanpaolo. Le rilevazioni del rapporto le mettono in cima alla classifica (prima e terza rispettivamente) fra le banche che nel 2023 hanno finanziato le società dell’oil&gas che operano nella regione dell’Artico (fra le quali ancora Eni), un’area che il rapporto indica come uno dei biomi più delicati del pianeta insieme alla foresta amazzonica. Che fare? Nel discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalle Pontificie Accademie delle Scienze e delle Scienze Sociali di metà maggio, è stato ancora una volta papa Francesco a dare la direzione.

Parlando della «crisi planetaria» e di come affrontarla, e citando la « vorace ricerca di guadagni a breve termine delle industrie inquinanti» fra i fattori di ostacolo all’«azione rapida e risoluta» che servirebbe, il Pontefice ha ribadito in modo inequivocabile quanto va dicendo almeno dall’enciclica Laudato si’ in poi: «Occorre puntare a una decarbonizzazione globale, eliminando la dipendenza dai combustibili fossili». Son già passati quasi nove anni dal’Accordo di Parigi e c'è chi continua ad andare in direzione ostinata e contraria. Come se niente fosse.

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