Dopo le indiscrezioni dei giorni scorsi, ora c'è anche l'ufficialità. A pochi minuti dall’apertura dei mercati borsistici è arrivato l’annuncio formale delle “nozze” tra Fiat Chrysler e il Gruppo PSA. Nasce così il quarto gruppo automobilistico al mondo formato dai marchi Fiat, Alfa Romeo, Maserati, Jeep, RAM, Peugeot, Citroen, Opel, DS ora riuniti sotto la stessa bandiera. Il progetto di aggregazione, spiega un comunicato congiunto delle due aziende, “fa seguito a intense discussioni tra i management team delle due società. Entrambe condividono la convinzione che ci sia una logica convincente in una mossa così audace e decisiva, che creerebbe un gruppo leader nel settore con le dimensioni, le capacità e le risorse per cogliere con successo le opportunità e gestire efficacemente le sfide di questa nuova era della mobilità". Con l’operazione nasce infatti un colosso da 8,7 milioni di veicoli all'anno con quasi 170 miliardi di ricavi e un utile operativo corrente di oltre 11 miliardi sulla base della sommatoria dei risultati del 2018. La fusione sarà paritetica (50/50). Il nuovo gruppo avrà sede in Olanda e un consiglio di amministrazione di 11 membri presieduto da John Elkann e con Carlos Tavares come amministratore delegato. Il comunicato ipotizza risparmi annuali di 3,7 miliardi di euro “senza chiusure di stabilimenti” grazie per lo più a una più efficace allocazione delle risorse per gli investimenti di larga scala in piattaforme veicoli, sistemi di propulsione e tecnologie" e alla "maggiore capacità di acquisto insita nella nuova dimensione del gruppo risultante dalla fusione”. Dopo i forti rialzi di ieri, Fca ha aperto con un ulteriore +9% questa mattina in Borsa.
Non è il matrimonio perfetto, ma i vantaggi ci sono
Tra le varie opzioni di accordo, quello con i francesi di PSA è sempre stato per Fiat-Chrysler il piano B, anche se il più antico. Meno azzardato del progetto sfumato con Renault che avrebbe portato in dote l’incognita riottosa di Nissan, meno convergente in termini industriali di quello con i coreani di Hyundai, e meno affascinante e prospettico di quello con i cinesi di Geely. Ma per familiarità dinastica e datazione delle intese, la fusione con il gruppo che fa capo agli eredi della dinastia Peugeot risulta alla fine la più naturale. Non è solo una questione di grandi e antiche famiglie al comando, perché troppi soggetti esterni hanno ormai mischiato le egemonie anche dalla parte degli Agnelli, ma delle reciproche convenienze che l’andamento dell’industria dell’auto hanno reso oggi fondamentali attraverso accorpamenti non più rimandabili.
La creazione di valore, e anzi la stessa sopravvivenza sul mercato, dei produttori di mobilità oggi non può prescindere dai ciclopici investimenti necessari per affrontare la sfida dell’elettrificazione. A questo si aggiunge l’inefficienza reddituale – più che finanziaria – dell’industria dell’auto, stritolata da un calo complessivo di vendite e dalle imposizioni sulle emissioni, che rendono i costi progettuali più alti dei rendimenti. Lo scenario è segnato così da due spinte contrapposte: l’indispensabile azione combinatoria fra soggetti o la prudente riperimetrazione delle attività di singoli gruppi, come stanno facendo con sfumature differenti ma metodo identico General Motors, Ford, Daimler, Bmw e Volkswagen, che ha l’obiettivo di tagliare i costi operativi, ridurre il personale, investire nell’elettrico e nella guida autonoma, e mitigare gli effetti della decostruzione delle catene globali del valore provocata dalle guerre commerciali in corso fra i blocchi americano e cinese.
Per Fca in particolare, non esisteva scelta diversa da quella della fusione: troppo il ritardo con cui approccia l’elettrificazione, troppo esile il patrimonio tecnologico che ha a disposizione e troppo forte la necessità di condividere le sue economie di scala. Ma al tempo stesso la realtà del gruppo risanato da Marchionne è oggi ben consolidata nello scacchiere mondiale e tale da essere appetibile a tutti. Anche il governo francese, che pochi mesi fa fece sfumare l’accordo tra Renault e Fca provocando lo stizzito ritiro dalla trattativa di John Elkann, ha dato il via libera a un’operazione che riguarda un’altra azienda nella quale ha una significativa partecipazione e che pare vantaggiosa per entrambi i soggetti in termini di risultati per ampiezza dell’offerta, numero dei brand e copertura geografica.
Fiat-Chrysler integrandosi con il gruppo francese potrebbe porre fine al suo principale problema: l’assenza di piattaforme modulari (per costruire modelli diversi per taglia, brand e tipologia) e predisposte per l’elettrificazione cioè per le auto elettriche ed ibride. Architetture che Psa invece possiede: modernissime come la CMP per le vetture compatte, pure in versione 100% elettrica grazie alla variante eCmp, ma anche come la Emp2 per auto medie/grandi e Suv di ogni taglia. Un problema non da poco potrebbe essere rappresentato dalla sovrapposizione di alcuni modelli simili attualmente prodotti tra i due gruppi, ma Psa schiera marchi come Peugeot, Citroën, Ds e Opel con una forte rilevanza soprattutto nel mercato europeo mentre Fca dispone di brand di area sportiva e premium come Maserati e Alfa Romeo, marchi regionali come Fiat e un nome di grande peso mondiale come Jeep che sta crescendo a due cifre trainato dal boom dei Suv. Il gruppo italo-americano inoltre porterebbe portare i francesi negli Stati Uniti, dove Psa è inesistente mentre Fca è una potenza con Jeep e con Ram, lo specialista dei pick-up che dominano il mercato Usa. Al contrario, Psa è presente in Cina e in mercati extra europei dove Fiat-Chrysler annaspa e ha bisogno di allargarsi. La teoria di un matrimonio non perfetto ma di sicuro interesse insomma c’è tutta, con l'incognita relativa all'occupazione da salvaguardare. E il timore che si tratti di nozze arrivate un po' in ritardo rispetto alle urgenze di un sistema come quello della mobilità che macina strategie e tecnologie alla velocità del suono.