martedì 24 dicembre 2019
L’intesa preliminare tra commissari e Arcelor Mittal non offre ancora garanzie. L'arcivescovo Santoro: non lasciamoci sopraffare
Taranto vive sospesa con l'ex Ilva
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Giuseppe Rossi, 46 anni, addetto alla manutenzione degli altiforni, per le sue due bambine è un supereroe. «L’altra sera, mentre mi preparavo a uscire di casa per il turno di notte che inizia alle 23, le mie figlie di 10 e 5 anni mi hanno chiesto: 'Dove vai che fuori è buio?'. E allora, a mo’ di favola, ho risposto che, mentre tutti dormivano, io dovevo aggiustare i motori della fabbrica e spazzar via le colonne di fumi. A quel punto, abbracciandomi, hanno detto: 'Papà, sei meglio di Batman'». Giuseppe non pensa certo di avere superpoteri, né vuole nascondere alla famiglia e a se stesso la realtà contraddittoria dell’ex Ilva, semplicemente nelle sue parole è racchiuso il sogno di Taranto che, nonostante tutto, continua a sperare in un domani con il lavoro ma senza più cieli neri. Dentro questa acciaieria che dà il pane e sforna veleni, Giuseppe lavora dal 2006, quando è stato assunto da un’azienda dell’indotto. È consapevole dei rischi che corre. «Ho messo in conto che, soprattutto se non cambierà nulla, un prezzo sulla salute potrei pagarlo, spero solo che possa essere il meno salato possibile. Ma so pure che, con il mio stipendio, sono riuscito a comprare un videogioco e una bambola da far trovare sotto l’albero alle mie figlie, poi in futuro chissà…». Mai come quest’anno per oltre 15mila lavoratori (tra diretti e indiretti) dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa è un Natale in sospeso. L’intesa preliminare siglata tra i commissari straordinari e i vertici di Arcelor Mittal non offre garanzie. Oggi pomeriggio, dopo la visita di inizio novembre, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte tornerà nell’impianto siderurgico per mostrare attenzione in una fase particolarmente delicata e per fare gli auguri agli operai. Ma l’unica certezza è che i tempi della trattativa tra il governo e il gruppo franco-indiano si allungano ancora. La nuova scadenza è diventata il 31 gennaio 2020. E tutto resta perennemente in bilico, irrisolto. Nel frattempo, la città dei due mari sta diventando sempre di più quella delle due fazioni: da una parte c’è il 'partito operaio' che sembra terrorizzato dalla sola idea di uno spegnimento del 'mostro', dall’altra parte ci sono i sostenitori di una chiusura immediata a causa dei dati inquietanti e sopra la media su emissioni nocive, malattie e mortalità. La spaccatura è palese. Parlano anche i muri. La domanda che campeggia su largo Maria d’Enghien, a pochi metri dal Ponte di Pietra all’ingresso della città vecchia, è un pugno nello stomaco: 'Operaio, tra i tanti guai... alla salute ci pensi mai?'. Ancor più cruda la scritta in via Basile, nel cuore dei Tamburi, il rione attiguo all’ex Ilva e infestato da decenni di polveri inquinanti: 'O l’acciaio o la vita! Devi scegliere'. Non è un bel segnale quando si arriva a scaricare sulle spalle delle tute blu il peso di una situazione insostenibile. E gli operai non ci stanno a passare né per colpevoli né per complici. «Si sta scatenando una sorta di guerra tra poveri, ma la realtà è che i lavoratori sono in ginocchio», avverte il se- gretario generale della Fim Cisl locale, Biagio Prisciano. Giovanni Laterza, dipendente dell’area 'Pla', in cassa integrazione ordinaria da luglio a 900 euro al mese, con un mutuo che fagocita metà assegno e una figlia di 4 anni da mantenere, si chiede: «Fino a quando potrò andare avanti così?». Si punta a tornare al più presto al proprio posto, nonostante i racconti poco incoraggianti di chi sta dentro. «Il clima interno è pessimo e non si lavora bene. Siamo esposti a temperature che superano i mille gradi, indossando indumenti di protezione usurati e, quindi, inadeguati – si sfoga un operaio dell’altoforno 2 sul cui spegnimento definitivo i magistrati decideranno entro fine anno –. Anche da qui si vede che Arcelor Mittal non ha certo voglia di investire». Non ci sono solo i franco-indiani sotto accusa. È inevitabile, del resto, dopo oltre mezzo secolo di vergogne di Stato e di mercato. Non si salva niente e nessuno: dall’epoca di 'mamma Italsider' (proprietà pubblica), rea di aver creato un’economia drogata, passando per gli scandali della gestione dei Riva, fino ad arrivare al sostanziale immobilismo ad alto costo per i contribuenti (4 miliardi di euro) degli anni di amministrazione straordinaria. Poi, poco più di un anno fa, l’ultima privatizzazione. Sul nuovo corso le aspettative erano alte. «Pensavamo che il peggio fosse alle spalle e invece non è cambiato nulla», confida uno dei pochi operai che ha voglia di parlare fuori dalla portineria D. Neanche delle promesse del governo ci si fida. «Sono venuti qui il presidente del Consiglio e gli altri ministri a dire faremo questo, faremo quello... E i soldi dove sono? – domanda Giulio Vecchione, trasportatore dell’indotto –. Per la banca Popolare di Bari hanno tirato fuori un miliardo di euro in una notte, per la nostra industria solo annunci e zero risorse. Ma non ci stancheremo mai di chiedere investimenti». Diffidenti, abbattuti, preoccupati, però operai e cittadini non rinunciano a sognare un’altra Taranto. Il nodo cruciale resta una vera riqualificazione ambientale. Su questo fronte finora è rimasto tutto fermo, ad eccezione della copertura dei parchi minerari. Ora il governo promette il rilancio a 360 gradi. Nella bozze del decreto 'Cantiere Taranto' – che Palazzo Chigi punta a varare a gennaio – si progetta la «riconversione produttiva» della città, un nuovo Sito di interesse nazionale (Sin) che comprenda anche l’area limitrofa di Statte e un nuovo commissario per la bonifica. Il piano ha un orizzonte pluriennale, ma l’avvio è un’urgenza. Il tempo incalza in una città in progressivo declino. Al rione dei Tamburi – che prima di essere invaso dalle polveri delle ciminiere dell’ex Ilva era rinomato per le distese di ulivi e l’aria salubre – ad ogni passo c’è un cartello con la scritta 'vendesi'. Che siano appartamenti o attività commerciali non fa differenza. Un’infinità di offerta e zero domanda. «Il mio negozio non lo vogliono neanche gratis », racconta Pietro Russo, che da mesi sta provando a cedere il punto vendita di accessori per auto. Ma la crisi non morde solo in periferia. Attorno alla centralissima via d’Aquino, la strada dello shopping, le botteghe storiche chiudono una dopo l’altra. In via Oberdan, via Mazzini, via Principe Amedeo, ogni 50 metri c’è una saracinesca abbassata. Colpa dell’ecommerce, ma anche del dilemma industriale. «Resta quasi tutto sfitto o invenduto per mesi, a volte per anni, nonostante nel frattempo il prezzo scenda del 30-40% – spiega Giancarlo De Bartolomeo, titolare di un’agenzia immobiliare attiva da quarant’anni in città –. Ogni tanto sostituiamo gli annunci, per evitare che si anneriscano ». Recentemente, però, un cartello è stato definitivamente rimosso. In via Giuseppe de Cesare 38, due ex operai dell’Ilva stanno lavorando per dare una 'seconda vita' alla storica pasticceria 'Principe'. «Siamo andati via a gennaio e con l’incentivo dell’esodo volontario abbiamo investito nella nostra città per costruirci da soli un’alternativa », raccontano Cataldo Ranieri e Marco Tomasicchio. Dopo anni di dure battaglie per chiedere la chiusura di «un impianto fatiscente, insicuro, velenoso» e dopo essere stati traditi dalle «false promesse del M5s», i due lavoratori hanno deciso di lasciare la tuta blu. «Apriremo una grastronomia e cucineremo piatti di pesce, anche per valorizzare i prodotti locali – raccontano –. Nelle discussioni in fabbrica, quando cercavamo di convincere gli altri colleghi a battersi per spegnere l’acciaieria in tanti ci dicevano: 'E poi dove andiamo a mangiare, a casa vostra?'. Ecco perché, anche se l’Ilva sarà ancora accesa, tra qualche mese aspetteremo tutti nel nostro locale. Che si chiamerà proprio così: 'A casa vostra'».

L'arcivescovo Santoro: non lasciamoci sopraffare
«Avere fede vuol dire non lasciarsi sopraffare dallo scoraggiamento». Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, nel messaggio di Natale invita «fratelli e sorelle tarantini ad avvicinarsi al presepe per rigenerare la speranza, per rinnovarla, per farla rinascere». «Anche vicino a noi continuamente viene tessuto il male dei grandi problemi e dilemmi di questa terra – scrive Santoro – ma più di tutto dal presepe si innalza l’inno alla vita e il grido dei poveri viene finalmente ascoltato. Rigenerare la speranza a partire da Dio è la nostra preghiera principale in questo Natale 2019». La Chiesa di Taranto e l’arcivescovo stanno seguendo con la massima attenzione la vicenda dell’ex Ilva, mostrando vicinanza all’intera comunità, a partire dai più deboli. Commentando gli ultimi sviluppi, Santoro si augura che, dalla lettera d’intenti sottoscritta da commissari e Arcelor Mittal, scaturisca un’intesa in grado di coinvolgere «tutte le istituzioni, governo nazionale, regionale e locale, nonché le parti sociali». «Si parta dalla città – aggiunge – dalle sue urgenze in termini di salubrità ambientale, salute e piena occupazione degli eventuali esuberi, per un accordo non più “salva Ilva” ma “salva Taranto”». L’attenzione, secondo Santoro, dovrebbe concentrarsi «sul sostegno a modelli economici alternativi a quello dell’acciaio da cui dobbiamo nel tempo emanciparci». «Aspetterei di vedere sul tavolo a carte scoperte il nuovo piano industriale prima di avventurarmi in valutazioni – conclude l’arcivescovo –. Abbiamo già sperimentato la fragilità di accordi sottoscritti e poi velocemente stracciati».

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