Ventitré milioni 183mila occupati, 4mila in più del record storico precedente (23,179 milioni) raggiunto nell’aprile del 2008, pochi mesi prima che il crollo di Lehman Brothers innescasse l’onda sismica della più devastante crisi economica del dopoguerra. Dai minimi toccati alla fine del 2013 c’è un milione tondo di persone in più che, in qualche modo, lavorano. Missione compiuta, si potrebbe dire, dunque, commentando il dato diffuso ieri dall’Istat.
Che mostra come la ripresa economica italiana non sia affatto quella jobless recovery (crescita senza occupazione) che si temeva. Eppure se la campagna elettorale in corso è in qualche modo uno specchio (magari deformato) delle aspettative del Paese ne emerge come il tema del lavoro, quello che c’è e quello che manca, resti centrale nelle preoccupazioni degli italiani. Un’inquietudine sociale alla quale i partiti cercano di rispondere con proposte e promesse assortite e talvolta mirabolanti. Evidentemente il «milione di posti in più» non è bastato a ridurre la forbice tra i bisogni e la realtà di tutti i giorni. Del resto il dato generale, per quanto positivo, racconta più di un rimbalzo che di una vera espansione, una faticosa risalita che dopo nove anni ci ha riportato al punto di partenza.
Ma, a parte il fatto che il tasso di occupazione (che tiene conto anche delle variazioni demografiche) è ancora di mezzo punto sotto il top del 2008 e l’indice di disoccupazione quasi doppio (11% contro 6%), è scomponendo il dato generale che si evidenziano le criticità e, forse, si possono ritrovare le radici del disagio. Il nodo più evidente riguarda la crescita della precarietà, che l’introduzione del Jobs act non è riuscito a scalfire se non nel breve periodo della maxi-decontribuzione 2015. Nell’ultimo anno, sui quasi 500mila occupati in più, 450 mila sono a termine: ovvero il 90%. Rispetto al livello del 2008 i precari sono saliti di circa 650mila unità mentre gli stabili sono ancora 60mila in meno. Mentre l’area del part time, spesso involontario, è cresciuta negli ultimi tre anni con tassi doppi a quelli del tempo pieno.
Altro elemento critico emerge dalla scomposizione degli occupati in base alla età. In 9 anni il tasso di occupazione tra gli ultracinquantenni è balzato dal 47 al 60%, anche grazie a agli effetti delle leggi pensionistiche. Quello dei 25-34enni è invece sceso dal 69 al 61,6% (anche se ha recuperato due punti dal 2014). Nell’età centrale 35-49 anni il tasso è sua volta sceso dal 76% pre-crisi al 73% di oggi (dopo avere toccato un minimo del 71%). Con il paradosso che gli 'anziani' restano scontenti perché obbligati ad andare in pensione più tardi (da qui le promesse di abolire la Fornero) mentre i giovani (ma anche gli adulti) perché hanno tuttora minori occasioni di lavoro, soprattutto stabile: elementi che portano da un lato alla messa in discussione di Jobs act e dintorni, dall’altro all’annuncio di nuovi mega-incentivi alle assunzioni.
Poi c’è il tema del salari (vedi minimo legale): quelli contrattuali sono sostanzialmente al palo mentre quelli reali sono sempre più spesso erosi dalle nuove forme di lavoro povero, parcellizzato, intermittente. E infine il problema delle competenze e dell’istruzione (vedi Università gratis): in un Paese dove il 20% dei lavoratori si dicono sovraistruiti (cioè svolgono mansioni inferiori al loro titolo) ma dove nel contempo, secondo Unioncamere e Anpal, nel 2017 sono saliti dal 12 al 21% i casi in cui le imprese hanno difficoltà a trovare le professionalità che cercano.