sabato 6 agosto 2016
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La chiamano Industria 4.0 o fabbrica intelligente: termini che vogliono far pensare a tecnologia, innovazione, futuro. È la nuova manifattura digitale. Una nuova rivoluzione industriale, la quarta ci dicono gli esperti, nata in Germania e che, poco alla volta, sta cambiando anche la struttura delle nostre fabbriche: il lavoro degli operai, i prodotti che utilizziamo e molto altro. Allo stato attuale il Governo ha messo a punto una strategia che doveva essere presentata ieri ma è stata rinviata. Questa si regge sull’idea che quanto necessario oggi al nostro tessuto industriale sia una forte politica di investimenti economici per favorire il ricambio tecnologico verso una produzione di nuova generazione. Ci sono diverse ragioni per le quali questo approccio sembra debole e, probabilmente, inefficace di fronte alla sfida che ci aspetta. La prima è di ordine storico e di contesto. Come dimostrano numerose analisi, non da ultimo il prezioso rapporto Giavazzi sugli incentivi pubblici, misure di questo tipo si sono tradotte in meri trasferimenti monetari alle imprese con scarsa capacità di incidere in modo stabile su scelte e comportamenti degli operatori economici. Tali politiche, nel nostro Paese, sono non a caso state indirizzate quasi unicamente all’acquisto di capitale fisico, nuovi macchinari (a volte anche inutilizzati) e ben verso misure strutturali di agevolazione fiscale per attività di ricerca e sviluppo e per la dotazione di capitale umano come volano di innovazione.E qui entra in gioco subito la seconda ragione: manca in Italia la coscienza che l’innovazione dei sistemi produttivi passa soprattutto dalle persone e dalle loro competenze, oggi vera infrastruttura portante del cambiamento più ancora della banda larga e del dato tecnologico. Basti pensare al basso numero di ricercatori presenti nelle aziende italiane rispetto al resto dei Paesi avanzati. In area Ocse solo Cile, Polonia e Turchia segnalano dati inferiori ai nostri, e ciò non solo per la contrazione della spesa pubblica in ricerca ma anche e soprattutto a causa della modesta entità dei finanziamenti privati e del basso numero di ricercatori impiegati in azienda e nel settore privato in generale. Spesso si ritiene ancora che sia sufficiente acquistare tecnologia innovativa dall’esterno, innestarla sui processi e suoi prodotti, e quindi ottenere aumenti di produttività e di qualità. Questo ragionamento non è solo sbagliato ma si traduce in un approccio insufficiente davanti alla portata dei cambiamenti che l’Industria 4.0 sta introducendo. L’innovazione costante, di processo e di prodotto, in Industria 4.0 non è una opzione, ma una condizione basilare. E l’innovazione non dipende unicamente dal capitale fisico ma da quei fattori esogeni tra cui i cosiddetti 'beni intangibili', le persone in primis, che sempre più sono e saranno fattore distintivo e competitivo delle imprese. Del resto, che senso ha incentivare l’acquisto di tecnologia senza investimenti formativi per poterla gestire al meglio, ottimizzarne l’utilizzo, costruirne di nuova e più efficiente? Potrebbe essere una scelta, ma non garantirebbe livelli di competitività oggi necessari per sopravvivere sul mercato con margini accettabili. Parlare di nodo culturale è un rischio, perché spesso si è considerati come osservatori di secondo livello, poco concreti e che poco o nulla incidono sulla realtà dei sistemi produttivi. Al contrario, crediamo che il modello antropologico sottostante alle scelte economiche abbia oggi implicazioni concrete e decisive per le sfide che ci aspettano.Al momento sembra che questa prospettiva sia assente dal piano strategico italiano, che certamente ha il merito, annunciato, di affrontare finalmente il tema oltre che di stanziare risorse ad hoc, anche attraverso piani di ricerca con atenei d’eccellenza. Il passo successivo che, a nostro parere, occorre è rilanciare l’uso delle risorse della formazione continua (oggi mortificate dalle esigenze di bilancio delle casse dello Stato) e la ricerca direttamente dentro i luoghi di lavoro, affinché essi siano dei veri e proprio laboratori di innovazione, degli hub all’interno dei quali accademia, centri di ricerca pubblici o privati e imprese possano favorire l’aggregazione di idee, progetti, risorse e personale altamente qualificato. Non si tratta di spunti astratti, c’è molto da fare per regolamentare la figura del ricercatore, modernizzare i dottorati industriali che oggi rispondono ancora a logiche quasi interamente accademiche, costruire ponti tra università e impresa per trasferire competenze non solo mediobasse ma anche avanzate.
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