lunedì 2 febbraio 2015
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L'Inps prende tempo sull’applicazione del tetto alle pensioni “miste” (in parte retributive e in parte contributive). «In considerazione dei tempi tecnici necessari all’attuazione dell’art. 1, comma 707, della legge n. 190/2014, la presente liquidazione è da considerarsi “provvisoria”». Con questa dizione posta sul cedolino di pagamento, infatti, sta liquidando la pensione ancora per intero senza la penalizzazione prevista dalla legge Stabilità 2015. Infatti, quella norma indicata dall’Inps ha introdotto un limite alle pensioni ancora in parte “retributive” stabilendo che, dal 1° gennaio 2015, non possono superare l’importo derivante dal calcolo operato interamente con la regola retributiva. A renderlo noto è stato lo stesso ente di previdenza nel messaggio n. 211/2015. Sono interessati i lavoratori occupati prima del 1996, i quali sono gli unici che ancora possono ottenere una quota di pensione calcolata col vecchio e più generoso sistema “retributivo”: fino alle anzianità maturate al 31 dicembre 2011 perché dal 1° gennaio 2012, invece, la riforma Fornero ha esteso a tutti il criterio contributivo (chi ha cominciato a lavorare dal 1° gennaio 1996 è fuori, perché riceve “tutta” la pensione calcolata con la regola “contributiva”). Il limite previsto dalla legge di Stabilità ha effetto, come detto dal 1° gennaio 2015, per tutte le pensioni: quelle già liquidate e quelle ancora da liquidare. Il fine è correggere un’anomalia che si è manifestata dopo l’entrata in vigore della citata riforma Fornero e dell’estensione a tutti i lavoratori, dal 2012, del criterio “contributivo” di calcolo della pensione. L’anomalia è questa: in presenza di alte retribuzioni, i lavoratori dell’ex regime retributivo maturano pensioni più alte di quelle che avrebbero ricevuto se fossero rimasti con il vecchio regime retributivo (è come dire: stavano bene e stanno ancora meglio, in barba ai principi di spending review di riforma). Il perché deriva dalla disciplina delle pensioni che, come detto, distingue due categorie di lavoratori: i «vecchi», quelli che hanno iniziato a lavorare prima del 1° gennaio 1996; i «giovani», quelli che hanno iniziato a lavorare da tale data. Con la riforma Fornero, dal 1° gennaio 2012, tutti i lavoratori, vecchi e giovani, rientrano nel regime contributivo: ai vecchi la pensione è calcolata in parte con la regola retributiva (anzianità al 31 dicembre 2011), in parte con quella contributiva (anzianità dal 1° gennaio 2012); ai giovani la pensione è tutta calcolata con la regola contributiva. Per i giovani, inoltre, i contributi si pagano fino a un certo importo di retribuzione che per il 2014, ad esempio, è stato di 100.123 euro: oltre non si sono pagati contributi, ma non si maturerà neanche la pensione. Perciò il giovane che ha guadagnato 200mila euro nel 2014 avrà pagato i contributi fino all’importo di 100.222 euro (limite massimo) e anche la sua futura pensione sarà calcolata fino al corrispondente (ridotto) montante contributivo. Lo stesso limite non vale per i vecchi lavoratori: ed è proprio questa l’anomalia della riforma Fornero. Perché il vecchio dipendente che guadagna 200mila euro, che nel regime retributivo avrebbe potuto maturare una pensione massima (con il massimo d’anzianità calcolato fino a 40 anni) di 160mila euro (l’80% dell’ultima retribuzione), con il sistema contributivo si ritrovava a poter maturare una pensione più alta, perché svincolata dal tetto contributivo (100.123 euro nel 2014) e svincolata anche dagli anni di contribuzione (come detto: 40 anni al massimo nel regime retributivo). La legge di Stabilità 2015, dunque, intende correggere questa anomalia: i vecchi non possono ricevere una pensione d’importo superiore a quella calcolata con la regola retributiva. Ma perché l’Inps ha messo in “quarantena” il nuovo limite? Ufficialmente l’istituto dà colpa ai “tempi tecnici necessari all’attuazione”. Il sospetto è un altro: odore d’incostituzionalità di quel limite, specialmente nella parte in cui è applicabile anche alle pensione già liquidate al 1° gennaio 2015. Infatti, parrebbe che il Legislatore (forse troppo giovane per ricordare) non abbia tenuto conto che, per quanto concerne i criteri peggiorativi sulle pensioni con un effetto retroattivo, la Corte costituzionale ha riconosciuto (al Legislatore) la possibilità d’intervenire con scelte discrezionali, purché non in maniera troppo irrazionale e, in particolare, senza frustrare in modo eccessivo l’affidamento del Cittadino nella sicurezza giuridica (sicurezza in relazione a situazioni sostanziali fondate su normative precedenti (tra le altre: sentenze n. 349/1985, n. 173/1986, n. 822/1988, n. 211/1997 e n. 416/1999). Riguardo alla natura dei contributi previdenziali, poi, la stessa Corte, pur osservando che «i contributi non vanno a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori», ha altresì evidenziato che, per quanto (i contributi) trascendano gli interessi dei singoli che li versano «essi danno sempre vita al diritto del lavoratore di conseguire corrispondenti prestazioni previdenziali». Morale della favola il Legislatore non può prescindere dal principio di proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali (sentenza n. 173/1986, n. 501/1988 e n. 96/1991). Il che potrebbe significare che il nuovo limite è illegittimo, non tanto per l’imposizione retroattiva, quando soprattutto per la mancata valorizzazione dei contributi versati improduttivamente (cioè versati oltre i 40 anni che, in virtù della regola retributiva, non possono essere valutati ai fini del calcolo della pensione). Proprio su quest’ultimo aspetto, non è escluso che i pensionati interessati rinfacceranno al Legislatore: se su quei contributi non ci calcoli la pensione, allora restituisciceli. Una questione che aprirà un contenzioso dagli esiti incerti.
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