Oggi, alla vigilia della storica udienza di sabato 27 febbraio con le imprese di Confindustria (la prima in 106 anni di storia) che saranno ricevute da papa Francesco in Vaticano, si terrà il seminario dal titolo Fare insieme: etica e impresa nella società connessa e globale. L’evento si svolgerà al centro congressi Augustinianum a partire dalle 9 e 30. La platea di relatori è davvero prestigiosa. Interverranno, tra gli altri, il cardinale Domenico Calcagno, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede, il cardinale Antonio Maria Veglio, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per le Comunicazioni della Santa Sede, l’ex premier ed economista Romano Prodi, il rettore dell’università Luiss Massimo Egidi, il presidente di Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti e Marc Lazar, professore all’Istituto di studi politici di Parigi e alla Luiss. A concludere i lavori sarà il numero uno di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri ha sottolineato come «a distanza di sette anni la speculazione finanziaria stia rialzando la testa, rischiando di gelare i primi germogli di ripresa». Per il presidente dell’associazione degli industriali, «l’unico vero antidoto è l’impresa». «Abbiamo in mano la chiave del futuro: si deve passare da un’economia lineare a un’economia circolare ». Non ha dubbi
Giuseppe Guzzetti, l’82enne navigato banchiere al suo ventesimo anno di presidenza della Fondazione Cariplo, alla vigilia dell’atteso incontro con papa Francesco in Vaticano. Un incontro storico in un momento epocale per tutti. E per tutti, stavolta, si deve intendere l’umanità intera. «Per la prima volta – ci dice Guzzetti – c’è la globale consapevolezza che stiamo davvero andando, anzi correndo, verso la distruzione del Creato. È necessario e urgente per tutti guardare a quanto detto da papa Francesco nella
Laudato sì. Ne va della stessa nostra sopravvivenza. Il vertice di Parigi di dicembre ha visto d’accordo tutti. Certo, ora gli Stati devono però mettere in pratica quanto concordato. Il mondo è l’unico grande bene comune».
Da dove si dovrebbe partire per invertire la rotta? «Bisogna cambiare punto di vista e prospettiva. A partire dal modello economico. L’obiettivo non può più essere soltanto quello del mero profitto, magari guadagnando denaro quanto più possibile senza alcuna regola. E mi riferisco in particolare a certa finanza. Bisogna cambiare le regole. Questo modello economico ha fallito: ha finito con l’ampliare le disuguaglianze e aumentare la povertà».
Ma chi dovrebbe traghettarci verso un nuovo modello economico non più esclusivamente consumistico? La parola chiave è condivisione, che non può prescindere da un nuovo senso di responsabilità da parte di tutti. Dai politici agli imprenditori. Ma oggi più che mai ad avere un enorme potere, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione sociale che connettono tutti quanti, sono i consumatori a poter incidere e determinare il cambiamento. Decretando, volendo, le sorti di quegli attori del mercato indegni e disonesti. In Italia ci fu un grande esempio di questo potere quarant’anni fa, anche senza Internet e i mezzi di comunicazione di oggi».
A cosa si riferisce in particolare? «Al caso Seveso, primo grave esempio di pre- potente capitalismo. All’Icmesa sarebbe bastato spendere qualche migliaio di lire per sostituire una valvola a quel cilindro di ferro ormai logoro dove avveniva, a ciclo continuo, la fatale reazione chimica. Dalla mancata volontà di spendere preventivamente una così esigua cifra è derivata una catastrofe che è poi costata, a parte morti e contaminazioni, più di cento miliardi di risarcimenti alla Roche Givaudan. Successe infatti che le prime associazioni ambientaliste decisero di boicottare i farmaci di questa multinazionale. Non restò che risarcire per cercare di riabilitarsi. Fu la prima dimostrazione che quando le imprese non arrivano con il proprio senso di responsabilità, devono essere i consumatori a coercire con campagne ad hoc boicottandone i prodotti».
Oggi, secondo lei, c’è più maturità o, se appena si abbassa la guardia, torna a prevalere la corsa sfrenata al profitto a tutti i costi? «Bisogna avere fiducia, ma continuare sempre a vigilare. A partire dallo Stato, con il potere coercitivo della legge. Mi conforta però pensare a come si produceva cento o anche cinquanta anni fa, quando l’ambiente e i lavoratori venivano calpestati. Oggi le aziende sono molto più attente e hanno capito che procedure rispettose e legali non riducono affatto i profitti. Anzi, aumentano. Perché la trasparenza, ben comunicata, finisce col generare maggiori consumi. Anche nella finanza è così: spesso prodotti etici danno più rendimento dei prodotti speculativi. Il vantaggio è multiplo: per l’impresa, per i consumatori e per l’ambiente in cui viviamo».
D’accordo, ma sul piano pratico che esempi ci sono di virtuosa economia circolare? «Sta emergendo, per esempio, il fenomeno delle Benefit Corporation. Sono aziende che hanno nei loro statuti l’obiettivo di produrre, oltre al profitto, anche servizi sociali. Sono presenti in trentatré Paesi, Italia inclusa ovviamente: per ora sono soltanto un migliaio. Lo scopo è il profitto, ma nello statuto stabiliscono di reinvestire nel sociale, nell’ambiente, nel commercio etico. È la prima, autentica fusione tra imprenditoria tradizionale e Terzo settore. Così si concilia l’interesse di chi investe con un obiettivo per la comunità».