Il direttore del Cfmt-Centro di formazione management del terziario Nicola Spagnuolo - Archivio
«Più che smart working, lo chiamerei obbligo di lavorare da casa a causa della pandemia». Nicola Spagnuolo, direttore del Cfmt-Centro di formazione management del terziario, ha le idee molto chiare su cosa serve davvero alle imprese per gestire l’attività da remoto dei dipendenti.
A distanza di quasi un anno cosa è cambiato?
Prima di tutto vorrei ricordare che la normativa è del 2017. Lo smart working non era applicato dalla stragrande maggioranza delle aziende. Siamo passati dai 150mila lavoratori 'agili' del 2013 ai 570mila del 2019. Per arrivare ai sette milioni del 2020. Gran parte delle nostre aziende è rimasta a galla, mantenendo più o meno inalterati i livelli di servizi offerti, grazie allo smart working. Se ad aprile 2020 solo il 31,1% delle aziende aveva mantenuto una capacità produttiva piena, a inizio 2021 il valore sale al 47,9%. Occorre però non generare false aspettative intorno al lavoro agile: quello esercitato finora, dalla maggior parte delle aziende, non può essere realmente definito smart working né giuridicamente né fattualmente. Abbiamo assistito a un lavoro a distanza imposto dalle condizioni esterne e non liberamente scelto, una tipologia di lavoro, non ricercata dal singolo lavoratore e non contrattata con l’azienda in base alle esigenze di ambo le parti: quello visto fino ad ora è stato la risposta all’emergenza per salvaguardare il business.
Ma è in questo che si esaurisce una modalità smart di lavoro?
Da una indagine promossa da Cfmt e Manageritalia e condotta da Astra ricerca prima nell’aprile del 2020 e poi tra le fine di novembre 2020 e l’inizio di gennaio 2021, a cui hanno partecipato più di 1.000 manager, si evince quanto siano cambiate non solo le percezioni di paura e di fiducia nel futuro, ma anche le modalità di gestione del capitale umano e degli investimenti, dopo quasi un anno di pandemia. Partendo dalla nostra ricerca, possiamo rilevare un importante cambiamento per quanto riguarda gli investimenti, che riguardano prima di tutto il comparto Ict settore fortemente trainato dal lavoro a distanza (il 55,9% dichiara che si dovrà investire più che nei periodi 'normali'), ma anche la comunicazione interna (46%) ed esterna (43,6%). Ma la figura del manager ha subito una forte evoluzione, parallela, all’evoluzione dei processi aziendali: cambiano le metriche di valutazione del lavoro svolto, cambiano le dinamiche interpersonali, cambiano gli stili di management molto più attenti all’ascolto: il manager si fa, spesso e volentieri, coach. Rispetto ad aprile 2020 tre voci sono caratterizzate da una intensa crescita: la formazione (+12%), la comunicazione tramite eventi (+8%) e quella interna (+8%).
Cosa suggerisce?
Non basta una piattaforma. Occorre ripensare l’organizzazione aziendale e il modello di controllo. Vanno riconcepite le relazioni sindacali e rifondato il rapporto di fiducia tra datore e lavoratore. Con lo smart working anche se 'drogato' e imposto per il Covid - sono cambiate le dinamiche interne ed esterne delle aziende: ristorazione, mobilità, logistica, dislocazione e dimensione degli uffici. Il controllo non va più esercitato sulla persona, altrimenti non faremo grandi passi in avanti, ma sul lavoro e la produttività. Servono invece orari più flessibili e competenze che aiutino a gestire l’autonomia dei collaboratori.
La formazione continua può aiutare?
Prima di tutto servono coraggio e creatività: qualità che agli italiani non mancano. Senza dimenticare la sussidiarietà, prevista dalla nostra Costituzione, ma spesso dimenticata. La formazione di per sé è neutra, è un obbligo e va imbrigliata in una visione strategica. Oltre a insegnare la gestione di una piattaforma, serve modificare l’approccio al lavoro. Migliaia di lavoratori, con lo sblocco dei licenziamenti, avranno bisogno del reskilling. Il parametro del costo del lavoro non basta più. Conteranno sempre di più il merito e il valore del collaboratore.