sabato 14 settembre 2024
Da Netflix ad Amazon, da Spotify a YouTube: modelli di business e punti comuni. «Capire i meccanismi del digitale alza il livello del nostro senso critico»
Marco Gambaro, economista dei media

Marco Gambaro, economista dei media

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Che cosa accomuna Netflix a Airbnb, ma anche ad Amazon, a Spotify o a TripAdvisor? Questi grandi player della digital economy hanno invaso molti aspetti della nostra quotidianità, cambiando il modo in cui organizziamo un viaggio o acquistiamo un libro o prenotiamo un ristorante, impattando moltissimo sui nostri consumi culturali.

Quelle citate e molte altre ancora, sono piattaforme diverse fra loro, sia per i settori diversi in cui operano, sia per i diversi modi con cui realizzano i ricavi: «Eppure hanno dei comuni meccanismi di funzionamento che è bene conoscere – ha spiegato il professor Marco Gambaro che insegna Economia dei media all’Università Statale di Milano –. Innanzitutto hanno tutte dei costi fissi, una volta che hanno successo, diventano internazionali, usano gli algoritmi per il loro funzionamento interno, quasi tutte hanno iniziato a utilizzare l’intelligenza artificiale».

Conoscerne a fondo il funzionamento e i loro diversi modelli di business permette di alzare l’asticella del nostro senso critico: «Ad esempio, le piattaforme streaming sono diventate lo strumento principale con cui oggi si ascolta musica registrata». E «se si guarda alla composizione dei ricavi delle case discografiche: le piattaforme sono diventate ormai la voce principale». Per quanto riguarda il video streaming non ci sono solo Netflix, Amazon Prime e Disney Plus, «in Europa si contano 500 piattaforme streaming on demand, suddivise tra quelle prevedono un abbonamento (SVOD), o guadagnano con la pubblicità (AVOD) e quelle con cui noleggi un singolo titolo (TVOD) che si vanno ad affiancare a un insieme già molto ricco di fornitori video come i canali televisivi tradizionali, le Pay Tv e il fenomeno YouTube.

Una delle scelte che accomuna le piattaforme distributive è la produzione originale di contenuti, in un’ottica di risparmio e anche di creazione di contenuti ad hoc per i propri abbonati: per fare un paragone come capita coi supermercati che hanno creato la propria marca del distributore (MDD). «Nel caso della produzione originale per l’audio, Spotify comincia soprattutto con le playlist di occasione, ad esempio “musica per studiare” o “per fare jogging”: una volta analizzate le preferenze dei consumatori, il tipo di musica che il consumatore associa a quelle occasioni, diventa possibile commissionare musiche o canzoni particolari che si adattino a quella tipologia di consumo. Se queste playlist sono molto diffuse, è conveniente pagare una volta sola un artista che fa una canzone e prendere tutti i diritti, che non pagare ogni volta un piccolo fee per la trasmissione di quello streaming». Questo significa costi che si abbassano per le piattaforme, ma anche contenuti su commissione che, talvolta, possono perdere di originalità.

Il tipico meccanismo di raccomandazione, invece, allarga lo spettro dei consumi culturali: da un lato l’algoritmo amplia le nostre opportunità di fruire di un catalogo più ricco anche di prodotti di Paesi lontani, Turchia e Corea su tutte. Dall’altro scatena, spesso, problemi di privacy: «La non trasparenza di questi algoritmi di selezione pone effettivamente qualche problema pubblico – ha proseguito Gambaro –. Sarebbe bello sapere come funzionano e che ci fosse possibilità che fossero più accountable, cioè che fossero più responsabili delle scelte che fanno. E invece così nessuno può tanto sindacare queste scelte». Tornando alla musica, la nuova modalità di fruizione basata su playlist e brani singoli, e non più su interi album, ha provocato, secondo il prof. Gambaro, delle conseguenze nella dimensione sociale delle nostre vite, di fatto creando un distacco più ampio tra gli artisti e i fan. In altre parole, la partecipazione ai concerti live è aumentata in parallelo con il bisogno delle persone di identificarsi maggiormente e avvicinarsi ai propri artisti preferiti. Qualcosa di simile è già accaduto, racconta ancora l’economista, con il boom dei biglietti aerei low cost in mezza Europa che ha dato un colpo al mercato delle seconde case in montagna o in campagna, i cui prezzi sono crollati negli ultimi anni, essendosi aperte altre possibilità di viaggiare a basso costo. E nel futuro quali saranno i settori tradizionali rivoluzionati dalla digital economy? «Se devo mettere un alert indico la tv tradizionale, quella fatta coi classici palinsesti. Oggi non possiamo dire che sia morta la tivù tradizionale. Ma nei prossimi 5-6 anni l’utilizzo sulle smart tv di applicazioni legate alle piattaforme streaming, ancora minoritario, ma già cresciuto negli ultimi anni, potrebbe anche provocare un effetto valanga» sulle nostre abitudini.


Piattaforme digitali e i nuovo modelli di business: quattro incontri alla Casa della Cultura di Milano

Le piattaforme digitali stanno ridisegnando vari aspetti della società e dell’economia, creando nuove opportunità e sfide. Su questo tema il Dipartimento di Economia Management e Metodi Quantitativi dell’Università Statale di Milano (DEMM) presenta un ciclo di quattro incontri, curati dal professor Marco Gambaro, docente di Economia dei media. Gli eventi sono realizzati in collaborazione con Casa della Cultura di Milano che li ospiterà: si inizia lunedì 16 settembre alle ore 18, con “Piattaforme streaming: come Netflix e Spotify hanno cambiato il nostro modo di consumare cultura”. A confronto altri due docenti dell’Università Statale di Milano: Lorenzo Zirulia, professore di Economia Industriale e Alessandro Gandini che insegna Sociologia dei processi culturali. Gli incontri successivi saranno il 30 settembre, il 14 e il 28 ottobre: tutti i dibattiti sono aperti al pubblico e trasmessi in diretta streaming sul sito internet, sulla pagina Facebook e sul canale YouTube di Casa della Cultura.

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