giovedì 19 settembre 2024
Il gigante americano ha richiamato i dipendenti in ufficio cinque giorni a settimana. In Italia invece il lavoro da casa è sempre più popolare, e i grandi gruppi non riscontrano cali di produttività
Altro che Amazon: in Italia lo smart working cresce ancora
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Indietro tutta. Lo smartworking finisce nel cassetto, relegato ad esigenze e situazioni eccezionali, e si torna in ufficio cinque giorni alla settimana. L’annuncio fatto dal ceo di Amazon, Andy Jessy non è una doccia fredda ma la punta dell’iceberg di una nuova tendenza. Proprio le Big Tech, le aziende più innovative che hanno fatto del lavoro agile una bandiera, stanno serrando i ranghi. Amazon è la prima a fare un passo drastico - che riguarda i circa 350mila impiegati, un decimo della forza lavoro - ma altre realtà potrebbero seguirla. Il colosso dell’e-commerce ha iniziato a mettere dei paletti un anno fa introducendo l’obbligo di presenza tre giorni a settimana. Politica adottata anche Alphabet (Google) mentre Disney ne ha previsti quattro.

All’insegna del nuovo “mantra” del faccia a faccia si muovono, tra le proteste e le petizioni dei dipendenti, anche Meta e Apple. Il primo a tuonare contro lo smartworking era stato Elon Musk che già a fine 2022 ne aveva decretato la fine in Tesla, invitando gentilmente i dipendenti «a far finta di lavorare da un’altra parte». Non meno drastica la posizione del ceo di OpenAi Sam Altman secondo il quale il lavoro da remoto è stato «uno dei peggiori errori dell’industria tecnologica».

La situazione dello smart working in Italia

In Italia lo scenario però è del tutto diverso: lo smartworking gode di ottima salute. Lo dicono i numeri e le esperienze consolidate. Alla fine dell’anno i lavoratori agili saranno 3,65 milioni, secondo le stime dell’Osservatorio del Politecnico di Milano che sta mettendo a punto il report annuale in questi giorni. Sono presenti nel 96% delle grandi imprese, nel 56% delle pmi e nel 61% degli enti della pubblica amministrazione.

I grandi gruppi come Intesa Sanpaolo e Luxottica oltre ad incentivarlo stanno sperimentando anche la settimana corta di quattro giorni. Tim ha avviato un progetto che prevede zero giorni in ufficio per mille dipendenti. Il gruppo Almaviva ha coinvolto i suoi 6mila dipendenti nella stesura di un modello di lavoro ibrido.

«È indubbio che siamo in un momento di equilibrio: le aziende stanno cercando il loro modello su misura - spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio sullo smartworking -. Se guardiamo ai numeri c’è stato un picco, dai 570mila smatworkers del 2019 ai 6,5 milioni nel 2020 legato al vincolo della pandemia, seguito ad un calo. Nel 2023 e anche quest’anno si registra un nuovo aumento, iniziato nelle grandi imprese, proseguito in quelle medie e nella pubblica amministrazione con in media due-tre giorni di lavoro da remoto».

La sfida adesso è passare dai numeri ai contenuti, vale a dire definire quali attività vanno fatte in sede e quali da remoto. «Il caso Amazon solleva un problema sentito dalle aziende, promuovere il senso di appartenenza, il valore collettivo del lavoro. È più facile, se si è tutti insieme, collaborare, innovare, decidere, ma al tempo stesso le aziende si scontrano con le aspettative delle persone che non vogliono recarsi in ufficio per “convenzione” ma chiedono una motivazione». Se si parla di produttività tutti i report evidenziano come sia maggiore per gli smartworkers. Il problema semmai, secondo Corso, è che si assiste ad una “individualizzazione” del rapporto di lavoro che crea squilibri e malintesi.

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Quando togliere lo smart working può costare caro

Le aziende che stanno chiedendo maggiore presenza in Italia sono casi isolati, ma ci sono. La provocazione lanciata dal gigante dell’e-commerce apre di fatto due strade: o si torna tutti in ufficio o si costruisce un modello strutturato e sostenibile. «Oggi il modo migliore per tagliare l’organico è togliere flessibilità - sottolinea Corso -. Ma potrebbe essere un boomernag perché vanno via quelli che hanno mercato, i più talentuosi, che non sono disposti a tornare indietro. Chi non riesce a cambiare lavoro resta ma il livello di motivazione precipita e questo alle aziende costa molto di più».

Si tratta del fenomeno conosciuto come “quiet quitting”: in Italia non ci sono state le grandi dimissioni perché c’è un mercato del lavoro rigido e molte persone non sono riuscite a ricollocarsi. «A livello complessivo c’è un aumento dello smartworking, ad ottobre avremo i dati più precisi - conclude il responsabile scientifico dell’Osservatorio -. L’asticella della flessibilità si sta alzando e un “back to office” avrebbe un impatto problematico con la fuga dei talenti, soprattutto dei giovani più qualificati».

I casi Panini e Montenegro

Dal primo aprile è andata in soffitta la modalità prioritaria nel settore privato (retaggio della pandemia e riservato solo ad alcune categorie) e il pallino è tornato in mano alle aziende. Alcune hanno deciso di cambiare rotta e mettere dei paletti. Uno dei casi più recenti riguarda il gruppo Panini. “Lavoratori trattati come figurine” è slogan scelto dai lavoratori due settimane fa per denunciare il dimezzamento delle giornate di smartworking, da 88 a 44 l’anno. Una decisione unilaterale presa dall’azienda di Modena che i mille dipendenti hanno appreso con stupore visto che per quattro anni il modello adottato aveva funzionato senza contraccolpi sulla produttività. Partita aperta anche negli stabilimenti della Montenegro di San Lazaro (Bologna), l’azienda che produce il famoso amaro. Lo scorso inverno sono state introdotte nuove direttive per limitare il lavoro agile ma dopo le proteste dei dipendenti si è aperta una trattativa per cercare una soluzione condivisa.


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