mercoledì 23 febbraio 2022
Ignazio Rocco, fondatore e ceo di Credimi, leader nei prestiti digitali alle piccole imprese: «Qui c'è ostilità per chi fa innovazione finanziaria. Così i giovani scapperanno sempre all'estero»
Ignazio Rocco, ceo e fondatore di Credimi

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Qualche anno fa, mentre con i soci andava dal notaio per registrare la nuova azienda, Ignazio Rocco ha ricevuto una telefonata dagli avvocati. Insta-Credit, il nome che avevano scelto, non poteva andare bene: non avevano ancora la licenza da intermediario finanziario, mettere il riferimento il credito nel nome rischiava di essere un 'abuso di denominazione bancaria". «Abbiamo cambiato il nome all’ultimo momento, mentre eravamo taxi. Siamo diventati Insta-Partner e quando ci presentavamo non capivano perché ci chiamassimo così. Soltanto dopo qualche tempo, ottenuta la licenza, abbiamo cambiato nome in Credimi. Questo episodio ci ha fatto capire fin dall’inizio quanta burocrazia avremmo incontrato lungo la nostra strada» racconta oggi il fondatore e ceo di questa società di finanziamenti digitali alle piccole imprese che si è imposta come una delle più forti fintech europee: 434 milioni di euro di crediti erogati nel 2021 e ricavi in aumento del 40%. «Più della carenza di fondi, in Italia per chi fa innovazione il problema è l’ambiente ostile che trova attorno» spiega Rocco, che prima di fondare Credimi ha lavorato in Boston Consulting, Akros, Imi e 21 Investimenti.

È davvero così difficile fare innovazione finanziaria nel nostro Paese?

Premessa: abbiamo molte notizie positive. Il fintech sta crescendo molto e l’Italia è già il primo mercato europeo per i finanziamenti digitali e tante piccole e piccolissime aziende hanno abbracciato molto presto la possibilità di chiedere e ottenere finanziamenti da un canale diverso da quello bancario. Le prospettive future sono anche migliori, stanno emergendo diverse realtà fintech che semplificano la vita di chi fa impresa su attività complesse come la contabilità, i pagamenti, la gestione delle paghe, delle tasse o della cassa. In Italia questo settore è in grandissima crescita e qui in Credimi abbiamo 1.300 domande di finanziamento a settimana.

E allora dov’è il problema?

È che viviamo circondati da ostacoli e ostilità. A una società fintech italiana è richiesta una quantità di adempimenti, controlli, pianificazione e gestione amministrativa che non ha confronti in Europa. È un carico burocratico che non è proporzionato, perché aziende da trenta dipendenti e mille clienti sono chiamate agli stessi obblighi di grandi banche da milioni di clienti e migliaia di impiegati. Poi c’è l’ossessione italiana per la pianificazione. A una società fintech viene chiesto da regolatori e investitori di fare piani finanziari a 4-5 anni, cosa molto difficile per un’azienda tecnologica, che pianifica lo sviluppo delle tecnologie più che l’evoluzione del conto economico.

I vostri concorrenti stranieri sono avvantaggiati?

Diciamo che nel Regno Unito o negli Stati Uniti per esempio la quantità di adempimenti chiesti a un’azienda come la nostra è un decimo di quella italiana. Ma c’è un problema più generale di atteggiamento. In Spagna e Francia per esempio il fintech è fortemente sostenuto dai governi. A gennaio quando la francese Qonto ha chiuso un grosso aumento di capitale si sono complimentati pubblicamente il presidente Emmanuel Macron e poi il ministro dell’Economia. In Italia i commenti sul fintech si occupano sempre dei rischi che la tecnologia può portare: è sicuramente un tema importante ma non si parla mai dei suoi effetti positivi sulla crescita economica, così come non si parla mai del bisogno di aumentare la concorrenza nel settore finanziario.

Serve un taglio della burocrazia per le startup?

Servirebbe un approccio radicalmente diverso alle regole a cui un’impresa innovativa deve sottostare nei suoi primi anni. Per provare una nuova tecnologia rapidamente bisogna poterlo fare senza troppo impegno burocratico e regolatorio. Altrimenti i giovani italiani che hanno buone idee le portano subito all’estero, dove non rischiano di essere soffocati dalla burocrazia. È tutto Pil futuro che regaliamo ad altri Paesi.

Sono passati dieci anni dalle agevolazioni fiscali per le startup introdotte dall’allora ministro Corrado Passera.

I benefici fiscali sono importanti, ma contano di più le semplificazioni regolatorie e normative. Un giovane imprenditore non sceglie dove avviare la sua impresa in base alle agevolazioni fiscali disponibili, ma guarda a quanto sarà complicato, calcola quanti avvocati, consulenti e sindaci dovrà pagare. Noi già nel 2016, prima di avere il primo cliente, dovevamo passare un centinaio di ore all’anno in riunioni dedicate ai temi regolatori. Una cosa mastodontica di cui anch’io, che ho 60 anni fatico, a venire a capo. Figuriamoci un ragazzo di 25 anni.

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