«La nostra non è un’epoca di cambiamenti, ma il cambiamento di un’epoca»; «Le innovazioni sono tali da rendere imprevedibile ciò che accadrà fra cinque anni»; «Nell’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito a trasformazioni più rapide che negli ultimi 12 millenni»; «Il film “Ritorno al Futuro” adesso non appare più incredibile». Con queste premesse, come faranno i giovani a prepararsi per il lavoro di domani, che nessuno conosce? Cosa dovranno studiare?
Nell’aula magna della John Cabot University (Jcu) di Roma, Angela Paladini, direttrice Risorse umane Emea della Johnson & Johnson; Michele Riela, vicepresidente Vertical Solutions di Olivetti; Iliana Totaro, Head of People Development di Enel Group; Pietro Paganini, professore di Business Administration e fondatore di Comeptere, dopo aver delineato lo scenario attuale, hanno tracciato le soluzioni. «I ragazzi dovranno prepararsi a reinventarsi più volte nell’arco della loro vita lavorativa», ha detto Antonella Salvatore, docente di Marketing e direttore del Centro di avviamento alla carriera della Jcu, lanciando il dibattito.
Bene, visto che non possiamo fare previsioni oltre un orizzonte di circa cinque anni, è inutile preoccuparsi di quali lavori saranno disponibili nel futuro; tanto vale, quindi, creare le condizioni per essere in grado di operare in qualsiasi contesto. Questo il punto essenziale della ricetta, su cui manager e docenti si sono trovati d’accordo.
«Il mantra è questo: curiosità, creatività, imprenditorialità», ha sottolineato Paganini. «Ognuno deve investire su sé stesso, come fosse una piccola azienda», ha spiegato Paladini. «I giovani devono essere proattivi e aver voglia di sperimentare, l’errore non è più un tabù», ha detto Iliana Totaro. «I solisti non interessano alle aziende, è importante invece la forza del gruppo, ha aggiunto Riela.
E ancora: stare a casa non serve a nulla: bisogna lanciarsi e provare, fare esperienze di stage, anche per schiarirsi le idee sulla propria vocazione e quindi sul target. E poi è importante adattarsi, saper interagire velocemente e con efficacia in qualsiasi contesto, dove siano presenti differenze non solo linguistiche, ma anche culturali e generazionali. È necessario essere flessibili e dimostrare intelligenza emotiva. Le conoscenze di base, quelle hard, frutto dello studio, sono sempre importanti, ma le aziende non cercano lo studente-genio da 10 e lode. A fare la differenza sono le soft skill, cioè le competenze morbide, il saper lavorare in team, parlare e presentarsi in pubblico, gestire il tempo, per esempio. «Temi, questi, molto cari al Centro di avviamento alla carriera – Career Services – della John Cabot University», ha sottolineato Salvatore.
In questo senso il ruolo dell’Università è fondamentale. Dato che nessun Ateneo sarà mai in grado di preparare a tutti i lavori, dovrà stimolare l’acquisizione delle competenze extra, tra cui quella di adattamento, così che gli studenti di oggi possano dare il meglio, domani, in qualunque situazione. Che ora nessuno può prevedere. Nemmeno un film di fantascienza.
Un dibattito si è tenuto in occasione dell'Open day estivo della John Cabot University (Jcu). Agli Atenei toccherà il compito di stimolare l’acquisizione delle competenze extra
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