Operai al lavoro in una fabbrica BMW in Cina
La crescita del Pil in Cina (+6,8%) supera le attese nei primi tre mesi dell’anno, spinta dai maggiori consumi dei suoi abitanti. E Pechino coglie l’occasione per dare le prime indicazioni concrete sull’apertura della propria industria agli investimenti stranieri. La Commissione nazionale per lo Sviluppo e le Riforme ha ufficializzato infatti che cancellerà nel 2020 i limiti alle quote estere nelle società che producono veicoli commerciali, e nel 2022 in quelle dei veicoli passeggeri. Già entro la fine del 2018 invece eliminerà i limiti alle quote straniere per le aziende che producono veicoli elettrici e nell’industria navale e aeronautica.
In un quadro economico in cui basta uno starnuto del Paese asiatico per avere conseguenze commerciali enormi nel resto del mondo, l’annuncio di Pechino è destinato a condizionare – e di molto – le strategie e le alleanze dei grandi produttori mondiali nei confronti della Cina che sino ad oggi, grazie al protezionismo interno, anche nel settore della mobilità è stato un grande cacciatore di multinazionali piuttosto che una preda. In particolare da quando hanno scoperto le auto infatti, i cinesi le desiderano fortissimamente. Le vogliono i grandi investitori che in questi anni hanno salvato i bilanci di importanti produttori esteri in difficoltà come General Motors e Volvo, e hanno fatto la fortuna di altri come Volkswagen che oggi vende sotto la Grande Muraglia più della metà delle vetture che costruisce. Ma le vogliono anche gli ex utilizzatori di biciclette e risciò, i giovani e i nuovi ricchi delle campagne e delle città come segno di status sociale, prima ancora che come strumento di mobilità.
Così, con 28,8 milioni di autovetture vendute nel 2017 (quasi il 41% dell’intero mercato mondiale), la Cina è cresciuta in questo settore meno di altri Paesi (+3%) ma resta da nove anni ininterrottamente in testa alle classifiche globali delle immatricolazioni. Un mercato condizionato dall’impostazione economica socialista del Paese, dove più del 60% delle vetture acquistate appartiene a marchi stranieri, anche se le leggi hanno sinora imposto ai gruppi internazionali che producono in Cina di agire in joint venture con industrie locali, controllate dallo Stato. Quasi 50 costruttori nazionali si spartiscono poi il restante 40% del mercato, che vale comunque circa 12 milioni di vetture l’anno: una torta troppo grande per non ingolosire i Grandi gruppi europei e americani che a questo punto potranno ribaltare il ruolo di conquistati per andare a caccia del tesoro cinese.
In quest’ottica diventa determinante l’elettrificazione in atto, decisa in maniera ferma e definitiva dal governo di Pechino per abbattere l’insostenibile livello di inquinamento delle grandi metropoli cinesi attraverso straordinari investimenti sulla mobilità alternativa. La Cina lo scorso hanno ha immatricolato 800mila vetture a batteria (anche qui confermandosi come primo mercato al mondo) e punta ad un sorpasso in pochi anni delle auto a trazione elettrica rispetto a quelle tradizionali, bissando il successo ottenuto con le 200 milioni di biciclette a pedalata assistita che già circolano nel Paese. Per sottolineare la portata della svolta, il governo ha fissato una percentuale minima di auto elettrificate da immatricolare (8%) entro la fine del 2018 rispetto al totale, percentuale destinata a crescere progressivamente con l’obiettivo finale di un mercato solo elettrico.
Se i piccoli costruttori locali saranno ora di certo nel mirino dei costruttori stranieri, è difficile invece al momento stabilire quanto siano scalabili i colossi cinesi dell’auto, talmente forti da essere destinati al massimo a diventare obbiettivi per alleanze strategiche e di prodotto. L’apertura promessa ha comunque una ragione di fondo, non solo economica: secondo ID Power, società di ricerca e consulenza, la qualità del “made in China” è ormai vicina al livello internazionale ma per allargarsi sul mercato è necessario globalizzarsi. Come ha fatto Saic (Shanghai Automotive Industry Corporation), il colosso cinese numero uno, che produce in joint venture con Volkwagen e General Motors oltre 5 milioni di veicoli l’anno in 15 Paesi, guidato dal potente Chen Zhixin che vuole pilotare il marchio nell’area dell’auto intelligente. Proprietà statale anche per Dongfeng (letteralmente “Vento dell’Est”), numero due della classifica cinese con 4,3 milioni di vetture vendute nel 2016 che già produce in alleanza con Ford e Renaut-Nissan e che ha salvato dal fallimento il Gruppo Psa (Peugeot-Citroen) rilevandone nel 2014 il 14,9% delle azioni.
Tra i privati invece comanda Geely: il suo proprietario Li Shufu, 54 anni, è stato il primo cinese a fare acquisizioni all’estero nel settore auto quando nel 2010 con 1,8 miliardi di dollari ha rilevato la svedese Volvo ormai destinata a fallire. Nel 2017 grazie agli investimenti cinesi, con 571mila immatricolazioni Volvo ha quasi raddoppiato il numero delle vetture che vendeva prima dell’arrivo di Geely. L’altro grande produttore non statale è Great Wall, secondo costruttore privato nazionale che immatricola 1,10 milioni di veicoli l’anno (ed è in testa nel settore dei Suv), il marchio che l’estate scorsa ha destabilizzato il mercato solo con le voci di interesse nei confronti di Fiat-Chrysler e soprattutto di Jeep, il suo brand attualmente più appetibile. Pochi, fumosi e infruttuosi contatti sono bastati a Wei Jianjun, presidente e maggior azionista di Great Wall, per muovere centinaia di milioni tra le Borse di Milano, New York e Hong Kong.