Per otto ore i ministri restano trincerati a Palazzo Chigi per riunioni informali, incroci di dati, faccia a faccia (anche aspri) e limature. Come fosse un bunker assediato. Mario Monti tiene la sua squadra sotto pressione: tra giovedì e venerdì il decreto sulla
spending review deve venire fuori nonostante le resistenze interne (ai dicasteri) ed esterne (partiti, sindacati, lobby varie e "santuari" della burocrazia). «È un segnale di serietà, quanto ottenuto al vertice europeo ci deve spingere ad accelerare, non a rallentare sulla spesa pubblica», dice il premier ai colleghi più titubanti e che già prevedono la paralisi sociale e un Vietnam parlamentare. «E poi – prosegue il professore leggendo una dopo l’altra le prese di posizioni politiche e sindacali – proprio non accetto che si parli di macelleria sociale per l’operato di questo governo. Stiamo ponendo rimedio a squilibri che non sono nostra responsabilità». Si riferisce sia alla necessità di ridurre il "perimetro" dello Stato sia agli interventi «misurati» sul pubblico impiego.Eppure, il pressing esterno un effetto potrebbe averlo non tanto sui soldi strutturali che si vogliono recuperare (9-10 miliardi nel 2012 e 25-26 nel 2013 per evitare l’aumento Iva, trovare soldi per Emilia ed esodati, consolidare il pareggio di bilancio e finanziare la crescita), quanto sull’agenda dei tagli. Il "decretone" unico che ora gira di tavolo in tavolo potrebbe scomporsi: al prossimo Cdm arriverebbero la parte cui ha lavorato il commissario Enrico Bondi (centralizzazione delle forniture tramite Consip) e i tagli indicati dal ministro della Salute, Renato Balduzzi (oltre alle riorganizzazioni dei singoli dicasteri), per un totale di 5-6 miliardi. In estate e in autunno (con la legge di bilancio) si chiuderebbe sugli interventi più "critici" riguardanti dipendenti statali, riordino delle circoscrizioni giudiziarie e risistemazione delle istituzioni periferiche (province, prefetture, questure, consorzi di comuni, città metropolitane). Una soluzione che potrebbe servire anche ad alleggerire i lavori di Montecitorio, congestionati da 13 decreti da chiudere prima della pausa estiva.Un’ipotesi cui si lavora nell’ultimo decisivo summit della notte, cui partecipano, oltre a Monti e al sottosegretario Antonio Catricalà, i ministri "economici" (Passera, Grilli, Giarda, Patroni Griffi) e i responsabili dei dicasteri più toccati dai tagli (Balduzzi per la Salute, Cancellieri per gli Interni, Severino per la Giustizia). Ma non è detto che finisca così. Monti ha la tentazione di chiudere subito la partita, e lo si intende da quanto dice in pubblico: «Peggio della paura sono le speranze illusorie», dice il premier alla presentazione del nuovo libro del ministro Riccardi. Sono riflessioni generali che però calzano bene sulla nuova guerriglia annunciata per la <+corsivo>spending review<+tondo> e sull’atteggiamento dei precedenti governi (e dei partiti) sui temi che lui si trova ad affrontare: «Per decenni è stato assecondato un superficiale "tiriamo a campare", si è fatto credere ai cittadini che il Paese può non affrontare problemi seri e cavarsela sempre». Ogni riferimento è «puramente casuale», aggiunge il prof. Per poi stringere: «Ora è il momento in cui, anche a scapito di una temporanea perdita di speranza, bisogna affrontare i problemi seri». Anche perché una politica che non sa vedere il «lungo periodo» mette addirittura a rischio la fiducia nella democrazia e apre la strada ad «altre esperienze».È, probabilmente, il succo di quanto il premier dirà stamattina a sindacati, imprese, regioni ed enti locali. Incontri separati dai quali, dice il ministro Riccardi uscendo da un Cdm-lampo, «ci aspettiamo molto perché abbiamo preso la direzione giusta». Fermo restando la disponibilità a diluire le sforbiciate lungo le prossime settimane, il professore, dopo l’esperienza complicata del ddl-lavoro, vuole tornare al "modello-liberalizzazioni": inglobare già nelle proposte del governo i punti d’equilibrio tra i partiti e con i sindacati, senza imbarcarsi in nessuna trattativa. I tempi d’altra parte parlano chiaro: se il governo avesse voluto concordare i tagli con le parti sociali, non le avrebbe convocate due giorni prima di varare il decreto. Lo staff di Monti nega anche l’ipotesi di un vertice con Alfano, Bersani e Casini prima del decisivo Consiglio dei ministri. Da un lato per evitare che ogni partito abbia la sua «bandierina» da piazzare o togliere dal decreto, dall’altro perché uno scambio tra i quattro potrebbe esserci giovedì quando il premier andrà a riferire alla Camera sugli esiti del Consiglio Ue dello scorso fine settimana (oggi pomeriggio invece sarà al Senato).