Ziba Samad - .
Ziba Samad è l’unica donna a lavorare nell’ambasciata afghana a Roma. Arriva all’appuntamento con la sua macchina, il volto sorridente e sereno. Non indossa il velo. Abita in Italia dal 2011, ne aveva 17 quando ha raggiunto il marito nella Capitale. Lui lavorava già da tempo in una pizzeria. Ha superato allora (ancora adolescente) la sorpresa di essere catapultata in un mondo libero, in cui si è sentita accolta immediatamente e di cui oggi si sente parte. E – difficile crederlo – nulla è cambiato per lei in ambasciata, dopo il ritorno dei taleban al potere, quel fatidico agosto del 2021: il lavoro continua. Surreale, ma vero, l’ambasciatore è ancora al suo posto, così come il personale. E lei ripete sorridendo: "Noi lavoriamo con il vecchio governo, non abbiamo contatti con Kabul, il nuovo governo non ci riconosce".
Difficile capire concretamente cosa questo significhi. Ziba assicura che in ambasciata si continuano a "rilasciare i visti, si legalizzano i passaporti, si fanno tutti i documenti legali, specie quelli necessari per entrare in Afghanistan". Quelle mura che dovrebbero delimitare lo spazio extraterritoriale per il nostro Paese, in realtà sono garantite "dal governo italiano", racconta Ziba. "Siamo un mondo a parte".
Un mondo invaso dalle pratiche dei tanti suoi concittadini evacuati "con l’aiuto della Comunità di Sant’Egidio" che in questi anni ha messo in salvo quanti lavoravano per l’esecutivo deposto dai taleban. "Molte donne arrivano traumatizzate".
A Ghazni, la ragazza ha la mamma e due sorelle, mentre anche il fratello ha lasciato il Paese. Il padre è morto da tempo e come tutte le donne che non possono contare su un uomo in casa, sono costrette a non muoversi. Niente studi, niente lavoro. Ziba e suo fratello mandano loro soldi, ma le banche sono solo nelle città, e per ritirarli devono chiedere aiuto a un cugino, perché l’accompagnatore uomo deve comunque avere un vincolo di parentela.
"In passato andavo a trovarle, ma ormai è impossibile tornare a casa, difficilmente mi farebbero rientrare in Italia", spiega Ziba, con un velo di tristezza che le riempie lo sguardo. Di nuovo lo stesso racconto, letto nelle tante storie pubblicate in questi giorni da Avvenire: "Vorrei che mi raggiungessero, ma è difficile oggi uscire dall’Afghanistan, il passaporto e i visti costano una cifra enorme e bisognerebbe passare per il Pakistan o l’Iran. Le sento su whatsapp, ma molto spesso non c’è connessione e quando passa tempo senza sentirle ho tanta paura che sia successo qualcosa…".
Contatti con il suo Paese Ziba li tiene anche con gli amici coetanei, con gli ex compagni di studio, con cui ha condiviso un’infanzia e un’adolescenza da giovane libera. Molti, anche gli uomini, sono disoccupati, perché lavoravano per il precedente governo e non sono riusciti a fuggire nei giorni drammatici delle evacuazioni. "Perciò nessuno di loro può fare nulla per la condizione femminile, se non mettendo a rischio la propria vita". Chi ancora "ci aiuta tanto sono la Caritas e la Comunità di Sant’Egidio. Quando arrivano qui le ragazze, o intere famiglie o giovani che hanno studiato e qui possono lavorare e ricominciare a vivere, ringrazio Dio per le opportunità che ha dato a me e a loro". Ma "se noi non possiamo fare molto, la comunità internazionale dovrebbe agire seriamente contro il comportamento dei taleban", ci saluta Ziba, tra amarezza e speranza.