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Cinquecentotrenta giorni fa noi occidentali abbiamo lasciato l’Afghanistan non alla sua libertà, ma all’arbitrio dei suoi signori e padroni. I venali e finti guardiani di una fragile democrazia, dimostratisi disposti a vendere tutto, anche i concittadini, per proprio tornaconto. E i taleban (con i loro finanziatori) decisi a comprare in blocco, scaricando poi, in modo sempre più dispotico, il prezzo dell’operazione sulla pelle dei ritrovati sudditi, in particolare delle donne. Cioè di giovani e adulte alle quali non è più consentito studiare, lavorare, partecipare e sviluppare compiutamente la propria personalità. È questo il drammatico risultato di vent’anni di guerra, mossa da Occidente sin dentro i confini di un altro Stato, e di montagne di vite e di miliardi di dollari gettati nella fornace del cinismo politico, dell’industria delle armi e della disumanità organizzata.
Di tutto il bene fatto, e fatto maturare, resta ciò che le donne e gli uomini d’Afghanistan sanno custodire nonostante la nuova oppressione dei vecchi fondamentalisti islamici. E resta ciò che già c’era prima dell’intervento in armi degli occidentali: la presenza e l’azione di poche agenzie umanitarie e di alcune ong, a cominciare da Emergency e dal Servizio dei gesuiti per i rifugiati. Sono una parte importante della preziosa galassia di realtà non governative che si prende cura del mondo e dell’umanità, e che una propaganda politica insensata continua a dipingere come nemiche dell’ordine garantito dagli Stati. Quale ordine? Il disordine feroce della guerra e dei dopoguerra uguali e peggiori rispetto ai giorni prima della guerra? O il disordine delle migrazioni di persone (tante, di nuovo, di origine afghana) forzate alla irregolarità e al rischio della vita? Pensiamoci. E a Roma e altrove chi ha potere (e non sente abbastanza il dovere della verità) cominci, finalmente, a sua volta, a pensare e a pesare parole e scelte.
Accanto al popolo del martoriato Paese centrasiatico e a chi non lo abbandona, cominciamo da oggi, domenica 12 febbraio, un percorso articolato e intenso sulle pagine online di “Avvenire.it” (ma ci sarà spazio pure sul giornale di carta) dedicato alle donne d’Afghanistan e condotto da firme femminili. Si svilupperà sino all’8 marzo, la data non è scelta a caso, ma non si fermerà lì. Ho accettato subito la proposta delle colleghe che l’hanno concepita e che la coordineranno perché ho chiaro, come i nostri lettori e le nostre lettrici, che il modo più profondo per dare conto di una tragedia è farlo attraverso gli occhi delle vittime. E in Afghanistan oggi nessuno è più vittima delle donne e più di loro protagonista della speranza necessaria.
Qualcuno si chiederà perché questa iniziativa è affidata solo a donne. Semplicemente perché è giusto che siano donne a dare voce alle donne a cui la voce viene spezzata e tolta. Nessuna rinuncia alla nostra responsabilità comune, ma per tutti noi, a cominciare da me, un mettersi in ascolto con immedesimazione e rispetto.