Zarifa Ghafari - Z.F.
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane (QUI TUTTI GLI ARTICOLI). I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
«Non credo che l’Occidente sia stato leale con le donne del mio Paese. Erano state coinvolte nel futuro dell’Afghanistan, poi sono state abbandonate». Zarifa Ghafari parla da Düsseldorf, dove è stata accolta come rifugiata dopo la sua rocambolesca fuga da Kabul, nell’agosto 2021, con la madre, cinque sorelle minori e il marito. Lei, la più giovane sindaca che l’Afghanistan abbia mai avuto, nominata nel 2018, a 26 anni dall’allora presidente Ashraf Ghani, sopravvissuta a tre attentati e al dolore per l’omicidio del padre, dall’esilio è diventata una delle voci più note dell’attivismo per i diritti delle donne.
Ha scritto un libro (“La battaglia di una donna in un mondo di uomini”, la cui traduzione italiana per Solferino è attesa tra pochi giorni) dal quale è stato realizzato il documentario “In Her Hands”, prodotto da Hillary e Chelsea Clinton e distribuito da Netflix , e ora si accinge a completare un secondo libro proprio sulle donne afghane. Nel febbraio 2022 è tornata a Kabul per completare le riprese del film sulla sua vita e per aprire un centro di assistenza per donne e bambini con l’associazione che ha fondato, Assistance and Promotion of Afghan Women (Apaw). Il primo gesto che Zarifa ha voluto compiere è stato portare un fiore sulla tomba dell’amato padre.
Zarifa Ghafari, non è stata una mossa azzardata tornare in Afghanistan, sebbene avesse avuto assicurazioni di non essere arrestata?
Niente di nuovo per me, la mia vita è sempre stata a rischio, e l’Afghanistan è il mio Paese. Ho un solo passaporto e una sola nazionalità.
È possibile un dialogo con i taleban?
È necessario: si consuma una terribile crisi umanitaria e l’unica possibilità che abbiamo per aiutare la popolazione è attraverso la mediazione con i taleban. Se le associazioni che lavorano nel Paese non dialogano con le autorità, sarà una catastrofe e molti moriranno.
Pensa che l’Occidente stia facendo abbastanza per il popolo afghano e in particolare per i diritti delle donne?
No, soprattutto se pensiamo a come si è mosso per l’Ucraina e per le donne in Iran. In Afghanistan decine di donne giacciono in prigione, decine sono scomparse o uccise e nessuno ne parla. Non c’è vita per le donne, e nessuno ne parla. È un doppio standard incomprensibile. Quando l’Occidente parla di diritti umani, penso: perché non il mio popolo, le mie donne, il mio Paese? Sì, mi sento abbandonata. E chiedo che l’Occidente faccia almeno quanto fa in supporto al popolo e agli attivisti iraniani. Anche in Afghanistan le donne manifestano, rischiano la vita per i propri diritti, perché non hanno lo stesso supporto? Il silenzio dell’Occidente rende i talebani più forti, li mette nella condizione di reprimere perché sanno che non ci saranno reazioni.
Alcune attiviste suggeriscono di troncare ogni aiuto ai taleban, sia per isolarli sia perché si teme l’effetto corruzione. Lei cosa ne pensa?
Non credo che tagliare gli aiuti sia una buona opzione. Non importa se gli aiuti finiscono anche alle famiglie dei taleban: anche loro hanno mogli, bambini che hanno bisogno, perché punirli? Quanto alla corruzione, le ong internazionali hanno molte possibilità di rendicontare le loro spese. Certo l’ideale sarebbe che gli aiuti arrivassero direttamente alle donne e alle famiglie. Le donne non sono corrotte.
Pensa che ci sia un futuro per lei in Afghanistan?
Non ho lasciato per sempre il mio paese. Certe volte penso con tristezza alla decisione che ho preso. Se mio padre fosse stato vivo e io non avessi avuto la responsabilità della mia famiglia, in quanto primogenita, forse non sarei fuggita. Ma non importa quando e come: tornerò in Afghanistan, appartengo al mio Paese e non voglio che siano i taleban a rappresentarmi.
Suo padre l’ha sostenuta negli studi e nell’impegno civico, suo marito la assiste nel suo lavoro. Che ruolo possono giocare gli uomini nella battaglia per la pari dignità delle donne?
Senza gli uomini la strada verso la pari dignità delle donne non è percorribile. La maggioranza della popolazione maschile afghana rispetta le donne e non condivide la mentalità dei taleban. I valori dell’istruzione e del lavoro non ci arrivano dalla comunità internazionale, ma hanno radici nella nostra cultura, nella nostra religione, nella nostra identità. Più del 50% della popolazione è donna. Se non dai al 50% della popolazione il diritto di vivere una vita normale, è difficile che l'intera società sopravviva.
Lei non perde la speranza...
No. Non importa se la mia battaglia non darà frutti per me, l'importante è lottare per la prossima generazione. Voglio che mia figlia non mi biasimi per non aver fatto abbastanza. Voglio che possa vivere in Afghanistan godendo interamente dei suoi diritti, come un maschio, come io non ho potuto fare. Allora mi siederò davanti a lei e le dirò che questo è stato reso possibile anche grazie alla mia lotta. Su questo, sì, sono ottimista.