Don Maurizio Patriciello con Michele Di Bari, prefetto di Napoli
Fu imbarazzante. Una mortificazione che non avevo messo in conto. Durante un incontro in Prefettura, sul dramma della Terra dei fuochi, cui ero stato invitato, commisi un errore “imperdonabile”: chiamai “signora” e non “eccellenza” la prefetta di Caserta. Apriti cielo, il suo collega di Napoli si sente in diritto di redarguirmi pesantemente davanti a tutti. Ingoio il rospo. Arrossisco.
Scendendo lo scalone del palazzo, a testa bassa, all’amico che mi accompagna, sussurro: « Mauro, non so perché, ma sento che il Signore si servirà di questa cocente umiliazione per la causa per la quale lottiamo». Così fu. Un video clandestino, che riprende l’accaduto, dopo poche ore, inizia a fare il giro del Web. Succede il finimondo.
Giornali, radio, televisioni, il mondo dei social, per giorni, non parlano d’altro. Il povero prefetto si scusa, ci stringiamo la mano, gli regalo un crocifisso. Il ministro dell’Interno, per riparare, mi invita al Viminale. Ho la possibilità di parlargli di persona delle nostre campagne inquinate, dei roghi tossici, delle patologie tumorali che vanno aumentando. Resto di sasso quando, rivolta a una sua collaboratrice, Annamaria Cancellieri, dice: «Mi avevano detto che era tutto finito». Promette di inviarci un “Commissario per la Terra dei fuochi”.
Mantiene la parola data. Sul nostro martoriato territorio, si accendono, finalmente, i riflettori. “Avvenire”, il nostro giornale, farà la parte del leone nel dar conto ai lettori – quotidianamente, onestamente – dello sviluppo delle cose. Il problema ambientale meriterebbe – e merita ancora oggi – ben altre attenzioni e risposte. Ci sono, in Italia e non solo, territori come il mio dove finanche il diritto al respiro bisogna strapparlo con le unghie.
Nel mio peregrinare per la penisola, durante un convegno a Reggio Calabria, conosco il prefetto del luogo. Alla fine dell’incontro prende la parola. Un pugliese, colto, cordiale, simpatico. Sorride bonariamente quando accenna alla buccia di banana sulla quale scivolammo malamente sia io che il suo collega qualche tempo prima. «Sono certo che quel giorno fummo strumenti inconsapevoli della Provvidenza» gli dico, sorridendo anch’io.
Passano gli anni. La battaglia per la mia terra e la mia gente continua. A qualcuno non piace. Finisco sotto scorta. I momenti difficili si alternano a qualche pausa di serenità. Quello attuale ci vede, ancora una volta, alle prese con il malaffare, la camorra, le infiltrazioni mafiose all’interno della locale amministrazione. Leggo che a Napoli arriva lui, l’uomo che avevo incontrato in Calabria. Un tuffo al cuore. Si ricorderà di me?
Appena posso, decido di andare a fargli visita. Squilla il telefona. È lui a chiedere a me se ancora ricordo quella serata passata insieme in Calabria e quando possiamo vederci. Dialogare con le istituzioni è più importante di quanto si possa credere. Hanno bisogno di noi, abbiamo bisogno di loro. Aver fiducia in chi le rappresenta, poi, è una grazia. Il mio quartiere vive un momento molto travagliato. Dopo quasi 40 anni di abbandono, i nodi sono venuti – dovevano venire – al pettine. La Procura si accorge che almeno 250 famiglie occupano abusivamente la casa. Ed ecco arrivare, nelle prime ore di una gelida giornata di febbraio, le ingiunzioni di sfratto.
Togliere la casa ai poveri equivale a farne dei barboni. A una persona puoi negare tutto, non il pane, l’acqua, un tetto, per quanto striminzito sia. Le famiglie più povere sono anche quelle più ricche di bambini, di vecchi, di ammalati. Se questa decisione sarà attuata non so immaginare come andrà a finire. Sono preoccupato. La legge va rispettata, su questo non ci piove. Il problema vero è che tante volte è la legge stessa che fa di tutto per non esserlo. Come hanno fatto 250 famiglie ad avere la residenza in una casa popolare occupata abusivamente? Perché non sono state sgomberate nell’immediato e denunciate alle legittime autorità? È giusto, dopo 30 – 40 anni, gettarle in mezzo alla strada? Occorre avere tanta pazienza e tanto discernimento. La paura si impossessa della gente.
Un giorno, mentre passeggio con il Capitano dei carabinieri e il Commissario straordinario si avvicina Ciro, un bambino di sette, otto anni. Con la faccia seria: «È vero, padre Maurizio, che ci cacciate fuori?». Una tristezza immensa. Una pugnalata al cuore. «No, Ciruzzo mio, nessuno ti caccerà di casa, vai a giocare e stai tranquillo».
La gente protesta. Scende in strada. Blocca i viali. Ma è la chiesa – la nostra chiesa amica – il luogo preso d’assalto. La parrocchia, casa tra le case, è il termometro che tiene sotto controllo i nervi, la fame, lo scoraggiamento, la paura, la speranza, la fede della propria gente. Qualcuno soffia sul fuoco. Ha interesse a creare confusione. Il prefetto – non è la prima volta – si fa avanti. Scende dallo storico palazzo di piazza Plebiscito e viene a Caivano. Parla con le persone, soprattutto mamme, terrorizzate di finire sotto i ponti. Le rassicura. Non sa, non può sapere, come evolveranno le cose. Ha fiducia, però, che in questa nostra Italia, sovente bistrattata e negletta dai suoi stessi figli, chi detiene le redini del comando, a tutti i livelli non si nasconderà dietro l’anonimato e la vigliaccheria lasciando centinaia di persone sotto le stelle.
Accanto a lui, sul presbiterio, in silenzio, ascolto. Sono commosso. Il prefetto unisce meravigliosamente la severità della legge con la carità evangelica. È una persona autorevole. Umile. Nella chiesa gremita scende il silenzio. Finiamo con una preghiera e la benedizione. La gente riprende a sperare. Lo Stato non ci abbandonerà. Lo Stato, tante altre volte lontano e distratto, si è fatto accanto. Inutile dire che non ha la bacchetta magica. Le omissioni e le negligenze perpetuate negli anni ci hanno presentato il conto. La politica non sempre ha il coraggio di presentarsi con la lettera maiuscola, non sempre è “la più alta forma di carità” auspicata da papa Paolo VI. A volte, purtroppo, chi la rappresenta tradisce se stesso e il popolo che gli ha dato fiducia, per un piatto di lenticchie. Che pesino, poi, un quintale o mille tonnellate, le lenticchie, cambia poco.
Credo che tanta povera gente, non abbia mai incontrato da vicino il prefetto di Napoli. Intimorita e riverente, come solo i poveri sanno essere, pende dalle sue labbra. Adesso lo vede in volto. Un volto buono. Gli parla. Gli stringe la mano. Ha fiducia. Attende. Michele Di Bari, dalla Calabria finì a Venezia, da Venezia è giunto a Napoli. Credo proprio nel momento per noi più delicato. Ancora una volta la Provvidenza ci è corsa incontro. L’uomo giusto al momento giusto, senza nulla togliere alla bravura, alle virtù e alle competenze dei predecessori.
In questi mesi ho avuto modo di constatare, ancora una volta, che il Vangelo ha sempre ragione. Se c’è una cosa che Gesù ci raccomanda è quella di non procedere da soli ma saper fare comunione. Insieme, solamente stando, lavorando, impegnandoci insieme si possono risolvere i problemi. Insieme, per il bene della nostra terra, della nostra gente. Insieme per non scoraggiarci quando le giornate pesano. Quando qualcuno che credevi amico ti tradisce. Insieme per continuare a sperare...
Interrompo. Spengo il computer. Debbo correre a Mergellina. Oggi, Francesco Pio Maimone avrebbe compiuto 20 anni. “Avrebbe” perché il ragazzo fu ucciso, quasi due anni orsono, con un colpo di pistola da un coetaneo al quale, per errore, qualcuno – non Maimone – avrebbe calpestato il piede sporcandogli la scarpa. Lo stupido assassino, infuriato, mise mano alla rivoltella. Un innocente morì. In riva al mare bello di Mergellina. Sotto gli occhi increduli degli amici. Sul posto, insieme ai genitori in lacrime e tante persone amanti della vita, a ricordare la vittima – ne ero certo – c’è lui, il prefetto di Napoli. Michele Di Bari, un altro caro amico su cui contare.