«Quello che in molti faticano a capire è che il danno maggiore provocato dalla diffusione dei profilattici in Africa come mezzo per contrastare l’Hiv è di tipo culturale. Il sesso, nella cultura tradizionale africana, è sempre stato visto come un impegno serio da parte di due persone per un progetto di vita. Tutto ciò, però, in molte aree è cambiato: la diffusione del profilattico, infatti, ha reso il sesso niente più di un gioco da prendere alla leggera». Parola di Sam Orach, medico ugandese e segretario dell’Uganda Catholic Medical Bureau.
Dottor Orach, lei parla di una «invasione culturale » subita dall’Africa anche in campo sessuale… «Sì, assolutamente. Faccio un esempio: nelle società tradizionali africane se un uomo chiedesse a una donna di avere un rapporto sessuale con l’uso del profilattico otterrebbe un rifiuto. Questo perché la donna penserebbe che quello non è un uomo di cui fidarsi, è un uomo che ha rapporti con molte donne, o che, viceversa, lui non si fida di lei. L’invasione culturale che propaga il sesso come poco più che un passatempo, la stessa che spesso sponsorizza il profilattico, va a minare questa mentalità. Con danni gravi nella lotta all’Hiv».
Spesso si cita l’Uganda come caso di successo. «È vero, ed è interessante sottolineare che questo successo deriva dall’attenzione posta sull’educazione piuttosto che sulla diffusione del profilattico. In Paesi in cui questo è stato propagandato in modo capillare, come lo Swaziland, il contagio è aumentato o è rimasto invariato. In Uganda si nota una minore diffusione di Hiv in distretti quali il West Nile e il Karamoja, in cui la cultura tradizionale di cui parlavo prima non ha subito influenze esterne. Perché allora non aiutare le comunità a preservare questa cultura con l’educazione e a ridurre di conseguenza l’esposizione al rischio? Di quale educazione parla? Guardi, noi non abbiamo combattuto armi in pugno contro coloro che promuovevano il profilattico. Quel che abbiamo fatto, invece, è stato chiedere di lasciarci promuovere anche le alternative, come l’astinenza e la fedeltà di coppia. Queste ultime opzioni sono importanti ed efficaci, e in molti qui lo hanno capito. C’è però bisogno di continuare su questa strada puntando sulla prevenzione».
Come hanno affrontato i media africani le polemiche di questi giorni? «Vi hanno dedicato poco spazio e quindi credo che anche la gran parte della gente le ignori. Il punto è: i giornali che attaccano il Papa lo fanno perché pensano abbia torto o perché stanno promuovendo gli interessi di qualcun altro? L’unica cosa di cui posso esser certo è che non sono stati gli africani a contrapporsi a quanto detto dal Pontefice».
Cosa condivide delle parole di Benedetto XVI? «Innanzitutto c’è da dire che il Papa non ha offeso nessuno: ha solo chiesto di compiere la scelta giusta. In ogni famiglia spetta al padre consigliare il figlio per il suo bene. Il Papa ha sottolineato che il condom non è la panacea nella lotta all’Hiv. Il problema è che molti non accettano o negano il fatto che ci sono altri metodi per il controllo dell’Hiv, dall’astinenza alla fedeltà nel matrimonio. È qui che nasce il conflitto di opinioni. Ma la Chiesa non può far altro che insegnare il meglio. Bisogna evitare il rischio, e ciò può essere fatto mantenendo un comportamento sessuale responsabile».
Benedetto XVI ha chiesto l’accesso gratuito alle cure... «Anche qui ha ragione. Se una persona ha l’Hiv la società deve fare di tutto per aiutarla. In Uganda in 100mila hanno accesso alla terapia antiretrovirale, ma sono più di 300mila quelli che ne hanno bisogno. È altresì vero che se spendiamo ogni risorsa per i farmaci e dimentichiamo di impegnarci sulla prevenzione, presto realizzeremo che non ci sono abbastanza soldi. Oltre ad aiutare chi è già in difficoltà, insomma, bisogna fermare la piena del fiume in tempo se si vuole evitare di restare tutti travolti».