Una soddisfazione autentica quella provata l’altro ieri da Marinella ed Enrico Gualchi, responsabili nazionali della rete dei Cpm (Centri di preparazione al matrimonio). Leggendo sul nostro quotidiano le cronache del Sinodo si sono imbattuti nella considerazione, emersa durante una delle sessioni dell’assemblea, secondo cui anche 'nelle convivenze ci sono elementi di santità'. I due coniugi, già nonni, lunga milizia matrimoniale alle spalle, un figlio naturale e uno adottivo, si sono guardati e hanno tirato un sospiro di sollievo. «Era da tempo che ne eravamo convinti, ma adesso che è stato detto anche al Sinodo...». Da dove nasce questa vostra soddisfazione? Dal fatto che, incontrando ogni anno migliaia di giovani negli incontri di preparazione che teniamo in accordo con le diocesi, vediamo che sono sempre più numerose le persone con alle spalle periodi più o meno lunghi di convivenza. Possiamo tentare una statistica? Al Centro-Nord, dove la nostra realtà è maggiormente diffusa, almeno il 90 per cento di chi inizia un percorso di preparazione al matrimonio è già convivente. Anzi, in questi ultimi anni vediamo che cresce il numero di coloro che decidono di sposarsi perché attendono un bambino. E c’è da esserne soddisfatti? Non è il fatto in sé che ci appare positivo. Ma il riconoscimento di uno stato di realtà, legato a condizioni sociali, culturali ed economiche, che noi non possiamo pretendere di cambiare. Se i giovani studiano fino a 25-26 anni, poi faticano a trovare lavoro, poi devono cercare casa e poi magari devono spostarsi dai luoghi di origine, è inevitabile che il proposito di sposarsi si concretizzi a 30 e più anni. Anzi, ormai i trentenni, nei nostri corsi, sono i più giovani. Giusto quindi, forse inevitabile, che l’atteggiamento della Chiesa sia destinato a cambiare? Inevitabile ci pare l’espressione corretta. Questa è l’epoca storica in cui siamo chiamati a ridire la bellezza del matrimonio e della famiglia. Noi questi conviventi 'santi', cioè con una forte inclinazione alla giustizia e alla verità, li incontriamo davvero. Certo, anche loro, come la maggior parte dei loro coetanei, arrivano al matrimonio dopo un periodo di convivenza. Quale cammino di fede proponete a questi 'giovani-adulti'? Un’accoglienza umana nel rispetto del loro passato e della loro sensibilità. Non può esserci giudizio o condanna, perché il rischio di perderli sarebbe enorme. Ma questo atteggiamento ci permette di fare scoperte eccezionali. Per esempio? Tanti giovani hanno dentro di sé, pur senza saperli declinare con le tradizionali parole della dottrina, quei valori di impegno, di fedeltà, di responsabilità che noi consideriamo fondamentali per il matrimonio cristiano. Si tratta di tirar fuori questi valori con pazienza, senza l’aria di impartire lezioni né distribuire patenti di merito. Quindi anche le indicazioni sulla sessualità prematrimoniale non dovrebbero costituire motivo di giudizio? Non vogliamo fare discorsi teologici. Queste indicazioni verranno dai padri sinodali. Noi guardiamo alla realtà che è sotto i nostri occhi. Oggi, a nostro parere, da parte di tanti giovani, la convivenza non viene vissuta come una scelta di leggerezza morale, ma una come una prassi dettata dal cambiamento dei costumi in senso globale e dalla distanza, spesso enorme dal punto di vista cronologico, che passa dall’innamoramento al momento del matrimonio. Spesso anche 15 o 20 anni. Non possiamo fingere che la realtà sia diversa. Ma possiamo proporre un cammino di fede che, pur nella coerenza ai principi di sempre, tenga conto delle condizioni di vita che questi adulti desiderosi di sposarsi hanno alle spalle.
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