domenica 29 gennaio 2017
Il rapporto con il Papa, l’opera dei gesuiti anche a livello sociale dove sono presenti. È uno sguardo a 360 gradi del nuovo superiore dei gesuiti
Padre Arturo Sosa Abascal, superiore dei gesuiti

Padre Arturo Sosa Abascal, superiore dei gesuiti

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Arturo Sosa Abascal, preposito generale della Compagnia di Gesù. Nato a Caracas, nel ’48, figlio di un banchiere, economista e ministro delle Finanze. Laureato in filosofia e scienze politiche ha dedicato molti anni all’insegnamento e alle ricerche: è un punto di riferimento culturale e politico di un Paese in ginocchio, per la crisi economica e per la violenza… «Non sono d’accordo, non è un Paese in ginocchio. È una situazione difficile, ma la gente è i piedi, opera, fa tante cose, viene stimolata la creatività e questo non viene captato dai media. Il grosso problema del Venezuela è che 100 anni fa il petrolio ha sostituito l’agricoltura, l’industria, come fonte di ricchezza. Ci siamo convinti che aver sotto terra il petrolio significasse di per sé ricchezza e non valesse la pena avere un’economia produttiva. La ricchezza non viene dalle risorse naturali ma dalle risorse umane che le trasformano e creano lavoro, relazione. Con un dato in più, che spesso non si capisce. I ricavi maggiori del Paese sono le rendite petrolifere, e lo Stato se le prende tutte, e poi le distribuisce. È cambiata così la relazione tra Stato e società: no è lo Stato che dipende dalla società, ma il contrario, e questo non è bene.

Lei è il trentesimo successore di sant’Ignazio, il primo non europeo e il primo latinoamericano, per la prima volta con un Papa gesuita e latinoamericano. C’è una sintonia particolare tra il Papa e la Compagnia?
Il Papa è gesuita non solo di nome, ma nel suo modo di esprimersi. Quante volte avete ascoltato il termine discernimento? Poi è latinoamericano, basta sentire come predica, il suo approccio alla gente, al Vangelo. È quel che si è generato in Sud America dopo il Concilio. Noi abbiamo la Compagnia come madre e il Concilio come padre, siamo figli di questi due genitori.

Cosa le ha detto quando l’ha incontrato dopo la sua elezione?
A me non ha detto niente, glielo ha comunicato padre Spadaro. Poi dopo qualche giorno sono andato a parlare con lui e siamo stati insieme più di due ore. Era molto contento, ma lo sarebbe stato con qualsiasi gesuita: ci ha sempre colpito il massimo rispetto del Papa per la Congregazione generale della Compagnia. Non è neppure venuto a salutare prima dell’elezione perché non sembrasse che poteva condizionare la scelta.

Il «Papa nero» (come viene a volte definito il preposito generale dei gesuiti) è eletto a vita. Eppure due suoi predecessori si sono dimessi, e si è dimesso un Papa. Cos’è cambiato?
La gente dura di più… Quando queste cariche erano a vita è perché l’aspettativa di vita della gente era minore. Padre Claudio Acquaviva (vissuto tra il 1543 e il 1615), italiano, è stato superiore 35 anni perché è stato eletto da giovane. Ma oggi non è più così, la formazione è più lunga, si è eletti più tardi e si vive più a lungo. È solo una questione biologica. “Mentre sei capace di fare il mestiere, fallo”. Ed è un mestiere a tempo pieno.

Dicono che lei sa “leggere il mondo”. Come si leggono 16mila gesuiti sparsi per il mondo? Sono tanti, pochi, di meno?
Si guardano con grande speranza. Sono lieto di guidare una Compagnia così ricca, che è riuscita a inculturarsi in civiltà diverse e abbiamo genuine vocazioni. Siamo tanti, siamo di meno di quando eravamo di più… ma il numero non è il nostro problema, quanto la qualità delle persone. Sant’Ignazio dall’inizio diceva nelle Costituzioni che bisogna scegliere bene tutti i gesuiti, anche se sono molti.

Del resto Dio si è scelto un resto d’Israele come popolo. La sua famiglia, numerosa, religiosa, dove ha imparato a pregare, immagino.
Religiosa ma non bigotta. Persone di fede, nonni e genitori, ma non stavano tutto il giorno in chiesa. Ho imparato in famiglia che Dio si trova quando tu sei responsabile della tua vita, quando studi, quando stai con gli amici.

Lei è stato in collegio a 13 anni, dove ha imparato la cultura e i principi della fede. Un’intera classe culturale e politica per generazioni si è formata dai gesuiti. Perché oggi le scuole cattoliche sono meno incidenti?
Bisogna dimostrare che non è così. Penso che oggi l’educazione cristiana sia più profonda. Quando il cristianesimo è più ambientale, culturale, sembra sia maggiore l’influsso della scuola cattolica. Oggi mi sembra sia una scelta molto più libera della persona. Un tempo era un’abitudine, un distintivo sociale, oggi è una proposta e chi vuol seguirla la segue. Credo che oggi questa proposta arrivi a una platea molto più larga di prima.

Perché prete?
Sono nato nel ’48, dopo le due guerre europee, in un momento in cui il Venezuela sembrava indirizzarsi al popolo, alla democrazia, dopo gli anni della dittatura, c’erano le ideologie in lotta, c’era la guerriglia e la mia generazione era impegnata nel fare qualcosa per il Paese. Mio padre diceva sempre che non si può star bene in famiglia se il Paese non funziona e noi non facciamo niente per farlo funzionare. Cosa fare per il Venezuela? Negli anni del liceo avevo scoperto la spiritualità ignaziana e ho pensato che quel che di meglio potevo fare per il Venezuela era diventare gesuita.

I giovani capiscono ancora gli Esercizi ignaziani? Il silenzio, l’isolamento, oggi che siamo sempre connessi.
I giovani, e non solo, sono capaci eccome di seguire gli Esercizi di sant’Ignazio. È un’educazione per gradi, in cui si impara il silenzio interiore, a conoscere se stessi. C’è un movimento che si chiama “Huellas”, in Venezuela, dove questo cammino si fa dai 15 ai 24-25 anni, è un accompagnamento.

La Chiesa, ha detto, ha bisogno di due gambe, il servizio e la conoscenza culturale, la profondità intellettuale, in modo che al pensiero segua la giusta azione. Carità e cultura, le sue dimensioni principali.
La prima gamba è la fede che diventa carità, la fede senza azioni non vale, le azioni della fede sono la carità. Ma le gambe sono due e per poter camminare bene devono essere pari, sennò si zoppica. Puoi zoppicare per la parte spirituale, quando non hai esperienza di Dio profonda, una fede che ti spinga alla carità. Ecco il lavoro dell’altra gamba, quella intellettuale: conoscere, pensare, approfondire, andare di là di quello che si pensa e si sa.

Altra dimensione fondamentale, che ha sempre caratterizzato la vita della Compagnia, è la missione. E oggi?
Mi sembra che oggi più che mai la Compagnia si senta missionaria dappertutto, perché si sente che ha questa sfida così grande di poter incarnarsi in ogni cultura, in un modo rispettoso. È una delle grandi sfide dell’evangelizzazione: per diventare seguace e discepolo di Gesù non bisogna rinunciare alla propria cultura. È un modo di convertire, di fare più umana, qualsiasi cultura. Questa è la tensione della missione della Chiesa per secoli, una missione non culturale ma evangelica: la mia cultura è la mia fede, ma io io devo dialogare con l’altro e lui deve scoprire questo seme del Vangelo attraverso di me, nella sua vita.

Il Papa insiste molto sulla differenza tra proselitismo e missione.
Certo, noi non facciamo propaganda ma testimonianza. Gesù attrae, non si impone. Il proselitismo è una posizione che non va bene con il Vangelo.

E infatti il primo ha generato ferite insanate nella storia. Ma se la verità è Cristo e bisogna riconoscere semi di verità in tutti, non si rischia di relativizzare la verità?
La verità è sempre relativa, non è una cosa fissa.

L’ha detto Gesù, che lui è via verità e vita…
In questo senso riconosciamo che l’unico assoluto è Dio, Gesù in quanto Dio è punto di riferimento. Dico che la verità è relativa perché è sempre il frutto di una relazione che si fa con Dio e con gli altri: lì viene fuori la verità e non è un monumento o qualcosa di fisso. Anche la verità è qualcosa che cresce con l’umanità.

Torniamo alla sua passione, la politica. I cristiani devono fare politica?
Non si può essere politici se non si è cristiani perché la politica è il modo di relazionarsi alle persone per creare la società. La sua premessa è mettere il bene degli altri al di sopra del bene particolare. La politica è possibile quando esiste questo livello di ricerca del bene comune, per il quale tutti mettiamo il nostro interesse particolare in secondo piano. Fare politica è fare questo: vedere dove si vuole andare, accordarsi come società e dopo unirei mezzi. Questo fa sì che tutti possiamo cercare il modo di abitare come persone umane., insieme. Non è possibile per nessuno abitare da solo.

Da noi c’è l’idea che la politica sia una cosa sporca, che un conto è la fede, la preghiera personale, o di una comunità un conto l’impegno nella realtà.
Anche la preghiera può essere sporca: la sporcizia è dappertutto. Esiste il male, siamo nella Storia. La parabola della zizzania nel grano ce lo ricorda. Per questo il Signore ci dice di attendere perché noi non abbiamo chiaro cosa sia la sporcizia e cosa sia il pulito. La vita umana è così, c’è tutto insieme, per questo c’è bisogno di discernimento e di coraggio. La politica è un modo di fare un discernimento collettivo e sociale.

Meglio far politica in un partito cattolico?
No, per niente. I partiti sono per il bene comune e la società non è cattolica, ma umana. Il cattolicesimo è un modo di vedere la propria fede.

C’è ancora per molti la divisione ideologica destra-sinistra. Dove la prima è di per sé cattiva e la seconda buona, evangelica. Gesù come primo socialista l’avrà sentito. Marxismo e cristianesimo possono andare insieme?
Il marxismo come dottrina sociale no. In qualche modo nega questa dimensione chiaramente umana che è la fede in Dio, la sua esistenza. Ci sono tanti modi di vivere il marxismo, ma quello che non va in generale, che sia marxismo, cristianesimo o cattolicesimo, è quando diventa un’ideologia e lascia indietro il pensiero, si trasforma in qualche modo nell’imposizione dogmatica di qualsiasi idea. In una società non è possibile ciò, per poter veramente fare politica le ideologie non servono.

La Chiesa latinoamericana è stata appiattita – ha detto – su una teologia della liberazione presentata in modo caricaturale come marxista. Non è così?
No, per niente, anzi al contrario. Quello che la teologia della liberazione ha sottolineato chiaramente è qual è il luogo teologico: da dove noi vogliamo sentire, interpretare e pensare la relazione con Dio. E questo luogo sono i poveri, e non è il marxismo ma il Vangelo. D’altra parte la teologia della liberazione ha detto che non basta la filosofia come pensiero che aiuti la teologia, era così nel Medioevo, ancilla theologiae: l’unica mediazione, i concetti si prendevano tutti dalla filosofia. Le scienze sociali hanno avuto uno sviluppo molto grosso dall’Ottocento in poi e sono anche fonte per i concetti teologici, per capire la povertà e le cause, la situazione dei poveri, i diritti umani. Se vogliamo avere veramente un pensiero sulla fede della gente povera, bisogna capire la loro situazione con ogni strumento che le altre scienze ci forniscono.

L’obbedienza al Papa è perinde ac cadaver: è il vostro quarto voto. Che cosa pensa della celebre citazione di Newman nella lettera al duca di Norfolk, quando scrive che in un brindisi sulla religione prima avrebbe brindato alla sua coscienza, poi al Papa?
Penso che la scelta dietro all’obbedienza è libera, nessuno ti obbliga a fare questo voto, che ha uno scopo preciso, la missione. Il Papa non decide come ci vestiamo, il colore dell’abito, ma riguardo alla missione. Il ragionamento che hanno fatto i fondatori della Compagnia, essendo pochi e volendo fare il meglio per la Chiesa, è stato riflettere su chi potesse avere uno sguardo universale e di indirizzo, e per questo hanno pensato al Papa. Poi, dal punto di vista più teologico, il Papa è il vicario di Cristo. Non è un potere gerarchico, ma ha la missione e la possibilità di guardare a tutta la Chiesa e unirla.

Si può discutere con il Papa?
Sì, si deve, perché non è un imperatore, è anche una persona, un cristiano che guarda al Vangelo. La sfida per noi gesuiti, per ogni cristiano e per il Papa è fare la volontà di Dio: dobbiamo cercare insieme questa volontà. Riconosciamo che i superiori, nella Compagnia come struttura, e il Papa in particolare, hanno una parola da dire e un processo di discernimento che la origina. Così l’obbedienza della Compagnia non si capisce se non si capisce che è un discernimento fatto in comune con la parola finale che fa il Papa.

Sant’Ignazio soleva dire che bisogna cercare Dio in tutto e in tutti. Anche nel male?
Anche nel male, ed è chiara questa figura del male nel Vangelo che appare dovunque. Il male è una dimensione dell’umanità, una conseguenza della libertà. Si fa il male perché siamo liberi, non siamo obbligati a fare il bene. Possiamo sceglierlo, anche il male è parte della sfida di qualsiasi scelta umana.

Lei è un uomo di studi, di azione, ha una grande responsabilità. Come riesce a pregare, a stare in silenzio davanti a Dio? Pensiamo in genere che si può pregare anche cucinando o badando alle faccende di casa.
Non si può fare tutto, bisogna scegliere: si impara col tempo e con l’età, bisogna avere chiaro quali siano le priorità, cosa non si fa e cosa invece si fa. Per esempio la preghiera si fa prendendo il tempo necessario come avviene per dormire o mangiare. Sembra una sfida e una tensione, anche nella vita della Compagnia è grande. Ci sono sempre cose da fare, da studiare, da pregare, un equilibrio instabile. Gli antichi gesuiti dicevano “Agis quid agis” (fai quello che stai facendo). Se stai pregando preghi, se fai lezione a scuola fai quella, concentrati in quello che fai. Se si devono fare tutt’e due le cose si fanno in tempi diversi perché l’energia umana è limitata e può esserci un inganno: io prego mentre faccio. Non è così: o si prega o non si prega. Se non si prega non si ha quel contatto assoluto con Dio necessario per la vita cristiana.

E quando Dio non risponde?
Continua a chiedere. La risposta di Dio è: “Io sono accanto a te, non ti rendi conto?”. Quello che percepiamo nella fede è che Dio è con noi. Il nome di Gesù è Dio con noi, Emmanuele. Dio non è come ogni essere umano che ti risponde con le parole o con la sua presenza e sostegno. Essere accompagnato è la sensazione che si ha quando si fa questa esperienza di Dio.

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