Un'immagine simbolo della deforestazione in Amazzonia (archivio Ap)
«Nessuno può dire “io non c’entro”. Non far nulla vuol dire rendersi complici della distruzione». Di fronte alla sistematica distruzione del pianeta – la nostra casa comune, l’unica che abbiamo –, la Chiesa non può sottrarsi all’imperativo di scuotere le coscienze. Dei cattolici, in primo luogo e, al contempo, di tutte le donne e gli uomini di buona volontà, di cui è in gioco la vita stessa. In questo panorama drammatico, il Sinodo sull’Amazzonia è un faro di speranza.
«Poiché apre nuove prospettive e ci invita, con coraggio, ad osare», ha affermato il neo-cardinale Fridolin Ambongo Besungu, durante il consueto appuntamento informativo nella Sala stampa vaticana. L’arcivescovo della capitale congolese Kinshasa partecipa – come ha detto – all’Assemblea ecclesiale, giunta alla terza e ultima settimana di lavori, «a nome dell’Africa e del Bacino del Congo, area che presenta molte somiglianze con l’Amazzonia».
Con i suoi 3,3 milioni di chilometri quadrati di estensione in sei Paesi africani, quest’ultimo è definito il secondo polmone del pianeta, anche se – proprio come la regione amazzonica – è più un magazzino di anidride carbonica che un produttore di ossigeno. E proprio come l’Amazzonia è una terra ferita dall’agricoltura intensiva, il traffico di legname, la pressione delle miniere e altri megaprogetti, dalla mancanza di politiche effettive di riforestazione. Il fardello ricade, in primo luogo, sui popoli della foresta: i pigmei, mettendone a rischio la sopravvivenza.
«Ma non è solo un “problema loro”. Lo sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali è la causa del cambiamento climatico. Ed esso colpisce anche in modo indiscriminato anche quei Paesi che adottano comportamenti virtuosi», ha detto monsignor Karel Martinus Choennie, vescovo di Paramaribo, capitale del Suriname. Nazione quest’ultima dove il 92 per cento di territorio è ancora coperto da foreste. «Eppure, gli uragani, provocati dal riscaldamento globale, colpiscono anche noi – ha aggiunto il vescovo –. C’è una contraddizione di fondo. L’Occidente vuole che l’Amazzonia sia protetta. Ma poi non è disposta a cambiare stile di vita, ad offrire alternative ai Paesi della regione».
La parola chiave, per il cardinale Ambongo, è “responsabilità” globale: o lo comprendiamo o ci autodistruggeremo. Siamo tutti responsabili, anche se alcuni più di altri: i governi, le grande aziende, le grandi potenze occidentali e la Cina, molto presente in Africa. La Chiesa ha il dovere di aiutare a promuovere un’ecologia integrale, ha aggiunto. Per tale ragione, dal 2015, la Chiesa di Camerun, Repubblica centrafricana, Congo, Repubblica democratica del Congo, Gabon e Guinea Equatoriale hanno dato vita, nel 2015, alla Rete ecclesiale della foresta del Bacino del Congo (Rebac), sul modello della pioniera Rete ecclesiale Panamazzonica (Repam). «La Repam ha fatto scuola. Sulla sua ispirazione, oltre alla Rebac, lo scorso ottobre è nata la Rete ecclesiale ecologica mesoamericana (Reemam)», ha aggiunto monsignor Héctor Miguel Cabrejos, arcivescovo della peruviana Trujillo e presidente del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam). «Non solo. La Repam, cioè l’idea del lavoro in rete, è anche il modello a cui si ispira la riforma del Celam a cui stiamo lavorando e che speriamo di poter presentare a marzo». Ad un lavoro integrato, oltre le frontiere nazionali, si guarda anche per il post-Sinodo. «È stata sollevata la questione della necessità di un organismo ecclesiale permanente che abbracci l’intera Panamazzonia. Ancora, però, non abbiamo ben definito quale forma assumerà», ha detto monsignor Cabrejos.
Ulteriori indicazioni al riguardo emergeranno dal documento finale, la cui bozza oggi ha affrontato l’ultima giornata di analisi nei Circoli minori, chiamati a presentare emendamenti, correzioni, integrazioni, i cosiddetti modi. Mercoledì e giovedì, come ha spiegato padre Giacomo Costa, segretario della Commissione per la comunicazione, il testo sarà elaborato nella sua forma finale dal Segretario generale, i segretari speciali insieme alla Commissione di redazione. Venerdì ci sarà la presentazione all’Aula, prima del voto di sabato.
Al di là delle singole questioni, esso rifletterà i tre punti chiave che hanno caratterizzato il processo sinodale, come ha sottolineato il presidente del Celam: la natura, l’essere umano e la Chiesa. Un percorso – ha sottolineato – ben più lungo delle tre settimane di assemblea. «Il Sinodo ha avuto due anni di preparazione, grazie alle istanze raccolte sul territorio da Repam». Tra queste, l’emergenza delle vittime delle grandi idroelettriche, la cui voce è stata portata ieri ai giornalisti dalla brasiliana Judith da Rocha, coordinatrice del movimento nazionale delle vittime delle dighe.