La Festa della promessa dei fidanzati nella Basilica di San Valentino a Terni - Il servizio fotografico è di Elisabetta Lomoro ed è pubblicato su www.diocesi.terni.it
A San Valentino, quest’anno, i ristoranti di sera son rimasti chiusi. Le coppie è probabile che ne abbiano approfittato per fare un figlio. Sarebbe auspicabile. La domenica precedente era la Giornata per la Vita. La prima edizione fu nel 1978 e allora nascevano molti bambini. Per dirla parafrasando il film premio Oscar nel 2006, richiamo, più che altro, la giornata per la vita degli altri. Gli altri continenti, come l’Africa o l’Asia, dove non solo non mancano bambini e giovani ma, anzi, la natalità continua a essere alta e lo sarà ancora negli anni a venire. Noi, però, ci nascondiamo dietro più o meno nobili giustificazioni: la bassa scolarità della donna o lo scarso numero di televisori, in quei lidi che ci ostiniamo a immaginare lontani.
Foto Elisabetta Lomoro
In Italia qualcuno aspetta che, con l’uscita dal tunnel dell’epidemia, i cuori, le menti e i corpi si rimettano in moto e diano inizio a una ripresa delle nascite. Qualcuno ha notato che un loro incremento si verifica sempre dopo terribili e devastanti terremoti. Per lasciarsi alle spalle la morte si usa la vita. Ci vorrebbe, però, un sentimento ispirato dalla visione di una ricostruzione, come quando le case e le strade giacciono distrutte. Il piano che si chiama Next Generation Eu pare un buon presupposto, a partire dal nome. Se non verrà sprecato. Se, invece, vivremo il post-pandemia come sopravvissuti che si sono solo un po’ spostati quando passava la bufera mancheremo nel cogliere il tempo opportuno.
Foto Elisabetta Lomoro
I vescovi italiani, nel loro messaggio per la Giornata del 7 febbraio, hanno scritto che questa ricorrenza doveva «essere un’occasione preziosa per sensibilizzare tutti al valore dell’autentica libertà». Una settimana dopo, ecco la festa degli innamorati. Pare, quello dei vescovi italiani, un passaggio di grande rilievo, perché si osa accostare la libertà al fare figli. Nella mentalità corrente vale il contrario. Se siamo liberi, lo siamo soprattutto di evitarli, i figli. Perché non intralcino, appunto, la libertà. Ha scritto Gilbert K. Chesterton: «La maggior parte della libertà moderna è alla radice paura. E non è tanto che siamo troppo audaci per sopportare le regole, ma è piuttosto che siamo troppo timidi per sopportare le responsabilità». Non sappiamo più bene cosa intendano, gli italiani, per libertà. Se ha ragione Luca Ricolfi, sarà quella della società signorile di massa: consumare quel che, oggi, si possiede. E domani? Non è certo la libertà delle generazioni future, che rischiamo di lasciare schiacciate – e per nulla libere – da una situazione sociale ed economica grave per loro, anche proprio perché pochi.
Foto Elisabetta Lomoro
Scrivo con il privilegio dei tanti nati negli anni 60, quando a nascere eravamo molti. È una delle nostre ricchezze: essere nati in tanti. La disgrazia di un bambino di oggi, seppur nasca signore, e signori si nasce ancora spesso, è di nascere lui solo, e pochi altri. Una disgrazia sociale, economica e financo linguistica, perché le parole fratello o sorella rischiano l’estinzione.
Il messaggio della Chiesa italiana per la Giornata della prima domenica di febbraio ha colto, al contrario, un nodo fondamentale. Aver celebrato e ricordato il Santo degli innamorati quest’anno (l’ha fatto anche il Papa all’Angelus di domenica 14) può rappresentare una direzione verso cui camminare insieme, ricostruttori, volenterosi e persone di buon senso, al di là del credo e della linea di partito. Dietro la falsa moderna idea di liberà si nasconde una paura: quella di assumersi responsabilità e fatiche. Ma la paura, se ben collocata e vissuta, può essere una buona consigliera. Ad esempio, la paura di rimanere soli, di invecchiare presto e senza eredi, di abbandonare la responsabilità sociale della ricostruzione dell’Italia dei prossimi decenni.
Foto Elisabetta Lomoro
Nel libro della Bibbia che si chiama Neemia, ambientato all’epoca di un entusiasmante momento di ripresa, c’è un racconto che sembra noioso e un po’ inutile. Si narra la storia della ricostruzione delle mura, divise in quarantadue lotti, restaurate dalle varie classi sociali del popolo. Ciascuno si prese cura di un lotto e tutti insieme ricostruirono l’opera intera. Ognuno si occupò di un tratto, quello che stava davanti casa. Ma non si stavano occupando di un affare personale, quanto invece di un’opera comune, le mura di tutta la città. A un certo punto il testo riporta una lunga lista di nomi e si va avanti rivelando che qualcuno restaurò quella parte, l’altro si mise a lavorare su quest’altro tratto, l’altro ancora si prese cura di quell’area. Un nome per ciascun tratto di mura. Chiaro che ognuno restaurava la parte di mura più vicina a casa propria. Ogni famiglia, ogni categoria, tutti contribuirono a un servizio che riguardava e apparteneva alla comunità intera: riscostruire la società. Una famiglia, coi figli, genitori e nonni, non è un fatto privato. È un fatto pubblico, perché ciascuna famiglia, mettendo al mondo figli e prendendosene cura, costruisce e restaura una parte del tutto, della città, del mondo.
L’autore è sacerdote e lavora presso la Presidenza della Pontificia Accademia per la Vita