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La santità nel vivere il quotidiano, fatto di letture, ore di scuola, chiacchiere con gli amici, pur nella sofferenza di una grave malattia. Venerdì una sala gremita, ma in silenzio commosso, ha partecipato, nell’arcivescovado di Taranto, alla prima sessione del processo con cui si inaugura il cammino verso la beatificazione e la canonizzazione del giovane Pierangelo Capuzzimati, scomparso nel 2008, prima ancora di compiere 18 anni, a causa di una leucemia.
A presenziare al giuramento dei membri del Tribunale, che saranno chiamati ad ascoltare i testimoni della fama di santità di questo servo di Dio, c’erano i compagni di scuola di Pierangelo, gli amici di sempre, i membri dell’associazione che porta il suo nome e si impegna in attività solidali, famiglie e tanti sacerdoti, che lo hanno incontrato o hanno imparato a conoscerlo dai racconti di mamma Giusy e papà Angelo. Entrambi erano seduti in prima fila, insieme alla figlia minore Sara e al sindaco di Faggiano, il paese della provincia ionica dove Pierangelo viveva. Anna De Vincentis, è stata compagna di liceo di Pierangelo all’Archita di Taranto, la scuola in cui studiarono anche Aldo Moro ed Alessandro Leogrande. E che ora tra i suoi alunni potrebbe annoverare anche un santo. Un “adolescente santo” e non viceversa, spiega qualche sacerdote che ne ha seguito le vicende. «Era un ragazzo positivo, sempre sorridente. Un ragazzo normale – racconta Anna – per cui la malattia passava in secondo piano rispetto alla fede, all’amore per lo studio. Ricordo le feste insieme e le pause tra una lezione e l’altra a discutere di filosofia, che era la sua materia preferita. Quello che stupiva di lui era la tranquillità e la positività con cui affrontava il suo dolore».
«È un dono di Dio per la nostra diocesi ed in particolare per i giovani - commenta l’arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro – perché è la dimostrazione che seguendo Dio non si perde niente in gioia, letizia, impegno, curiosità nello studio, nel sapere, nella novità della vita. Tutto questo viene bensì illuminato e rafforzato dall’esperienza di Dio. E poi, contrariamente a quanto si dice, è segno che la nostra gioventù ha un cuore, e che nella giovinezza può avvenire un riscatto utile a tutta la nostra società».
Giusy ed Angelo ascoltano in silenzio. Non commentano. Il volto è teso ma grato. Semplici genitori, che in fondo non comprendono perché proprio a loro un tale dolore ma accettano e si domandano il senso più grande di un’esistenza, quella del figlio, che ha seminato in pochi anni così tanto bene. A chi ricorda loro di Pierangelo alle medie, nei panni di Alfredo in una rivisitazione scolastica della Traviata, sorridono mesti. «Abbiamo il filmino a casa – dicono – ma non abbiamo mai avuto il coraggio di rivederlo». Ecco la straordinarietà della fede che non si trasforma in eroismo.
«È proprio interessante l’atteggiamento dei genitori e della famiglia. Nessuna spinta, nessuna indicazione di protagonismo o sollecitazione ad anticipare il giudizio della Chiesa – commenta a margine monsignor Santoro – sono il prototipo di ogni nostra famiglia e la dimostrazione che tra le mura di casa, nell’ordinarietà, può accadere qualcosa di eccezionale. La loro è la testimonianza della semplicità di chi non ha la presunzione di arrivare alla santità ma si affida ad un progetto più grande, all’amore di Dio e questo è fonte di una pace grandissima».