venerdì 18 settembre 2009
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Sorpresa: i new media non sono più lo spauracchio dei genitori, ma alleati nella crescita dei figli. Con tutte le consapevoli cautele del caso, dimostra però di essere una spanna avanti il Rapporto-proposta La sfida educativa, nel capitolo dedicato ai mass media. Lo è perché tira le orecchie ai genitori e li sollecita a cogliere le opportunità educative di Internet, blog e quant’altro di nuovo la comunicazione digitale offre ai loro figli, senza lasciarsene spaventare. I social network – argomenta il Rapporto messo a punto dal Comitato per il Progetto culturale della Cei – favoriscono la socializzazione tra coetanei e ciò apre alla «possibilità di una responsabilità dei giovani a diventare protagonisti consapevoli e critici della comunicazione digitale». L’amicizia è sempre una relazione educativa, e dunque nemmeno quella digitale fa eccezione. Certo, occorre che la famiglia si attrezzi per non restare esclusa dai mondi dei propri figli. «C’è un problema di vigilanza e di accompagnamento – commenta Guido Gili, preside della Facoltà di Scienze umane dell’Università del Molise e esperto di mass media, ai quali ha dedicato vari saggi –. I genitori devono sforzarsi di apprendere il linguaggio del mondo digitale per poter accompagnare i figli al suo interno». Non solo: secondo Gili le competenze dei figli nei new media possono propiziare una sorta di rovesciamento delle parti, con i giovani che "educano" i genitori. «La valorizzazione degli interessi e delle capacità del ragazzo è un fatto importante nella crescita dell’autostima e può favorire un dialogo in cui i genitori "ascoltano" i loro figli senza rinunciare alla loro funzione di accompagnamento verso la scoperta del proprio valore personale e di ciò che dà senso alla vita».Ma non ci sono solo i nuovi media. L’analisi del Rapporto esplora i mezzi di comunicazione tradizionali, e qui la diagnosi è meno rosea. Alla domanda: i media – soprattutto la televisione – sono soggetti del processo educativo, hanno una responsabilità educativa?, la risposta è complessa: no, se si considera che l’educazione nasce all’interno delle relazioni tra persone; sì, se si pensa che nulla di quello che si comunica è privo di valore educativo. Per il ruolo che oggi hanno nella vita di tutti e soprattutto in quella dei giovani, i media interferiscono, eccome, nel processo educativo, «possono assecondarlo e sostenerlo come renderlo più arduo e rischioso», si legge nelle pagine di La sfida educativa. Nonostante molti genitori si lamentino di come i modelli proposti dalla tivù siano spesso fuorvianti, però, il Rapporto invita le famiglie a non crearsi alibi: «Il punto decisivo non è il fascino dei media ma la credibilità degli adulti, con tutta la fatica che comporta e che, sola, rende possibile e persuasiva l’educazione». Ecco l’idea guida che il Progetto culturale lancia alla famiglia: la credibilità degli adulti in carne e ossa rispetto a quelli visti in tivù. Se un bambino e un ragazzo pensassero che il mondo reale fosse popolato solo dagli adulti spesso fatui, quando non violenti, traditori e mentitori che il piccolo schermo ci propina, allora non ci sarebbe speranza. Ma non è così. Qui entrano in gioco tutti coloro che devono raccogliere la sfida di trasformare il mondo dei media in un luogo educativo. La scuola, che dovrebbe inserire nei programmi la media education per avviare i ragazzi a un consumo critico. Le famiglie, che devono attivare difese di fronte a contenuti inadatti. L’associazionismo familiare, che deve farsi strumento di pressione per chiedere programmi più «rispettosi dell’umano». E infine, gli operatori dell’informazione, che vengono richiamati a una responsabilità personale. «Chi lavora nei mass media non può essere cinico»: sono le parole di un grande giornalista, Emilio Rossi, citate ne La sfida educativa. In uno dei suoi passaggi forse più originali, l’analisi del Rapporto-proposta sull’educazione ricorda un principio troppo spesso dimenticato: ciò che arriva al pubblico passa attraverso le scelte e la sensibilità degli addetti ai lavori. E se «la nostra esperienza quotidiana testimonia che il cinismo è l’atteggiamento normale di chi fa informazione», occorre comunque non arrendersi a questa logica.Utopia? Solo a prima vista. «Ciò che vediamo nei media o in tivù da dove nasce? – si chiede Guido Gili – Questi contenuti sono prodotti da un’élite professionale e culturale composta di giornalisti, responsabili di palinsesto, autori, registi, produttori. Certo, ci sono vincoli esterni e oggettivi nell’autonomia del loro lavoro, ma la responsabilità della persona non può essere mai messa fuori gioco. Per questo credo che fare appello alla personale responsabilità degli operatori della comunicazione non sia tempo sprecato. Né che lo sia investire sulla formazione, non solo professionale, ma anche culturale ed etica, dei giovani che desiderano intraprendere questo difficile mestiere. "Chi dice che cosa", non è mai indifferente».
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