Caro direttore, documentate e ineccepibili appaiono le considerazioni che Massimo Introvigne ha svolto (
Avvenire del 18 marzo) sull’evidente manipolazione mediatica dei dati riguardanti gli abusi sessuali di sacerdoti e di religiosi. L’insistenza con la quale questo fenomeno continua a manifestarsi è sotto gli occhi di tutti. Vi è un aspetto, tuttavia, sul quale merita riflettere più attentamente, e cioè il confronto tra i membri del clero e altre categorie di cittadini (dagli educatori agli allenatori sportivi) che dimostrerebbe, fra i preti cattolici, una minore presenza di comportamenti abominevoli. Non è infatti agli educatori in generale o agli allenatori che si richiede quella
radicale esemplarità di chi ha scelto la persona di Gesù Cristo come ideale di vita e per essa è disposto ad abbandonare tutto, anche gli affetti più sacri e le aspirazioni più legittime. Ciò che offende e scandalizza la pubblica opinione – ivi compresi i cattolici – non è la «percentuale» dei corruttori e dei depravati presenti nella Chiesa, ma il fatto stesso che essi vi siano (e che, in ipotesi, siano in qualche modo tollerati).Prendere coscienza di questa
intollerabilità – anche a salvaguardia dell’onore, oggi ferito, dei tantissimi sacerdoti e religiosi che hanno dato e danno esemplari testimonianze di vita – significa attrezzarsi adeguatamente per impedirla in futuro, attivando
oggi quei comportamenti che chiuderanno le porte, per quanto umanamente possibile, ai potenziali abusi di domani. Pur nella consapevolezza della modestia di chi scrive, ma insieme nella certezza di interpretare esigenze assai diffuse nel laicato cattolico, sia consentito sviluppare alcune considerazioni pratiche a servizio di una Chiesa che tutti amiamo e nella quale siamo orgogliosi di rimanere. La prima esigenza è quella di un’attenta verifica – da condurre con l’ausilio di qualificati competenti nelle scienze umane – della qualità e dell’equilibrio psicologico dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa. La evidente, e per certi aspetti drammatica, crisi di vocazioni non deve indurre ad «abbassare la guardia»: meglio la severità di oggi che i
mea culpa di domani.Una seconda considerazione riguarda l’impegno volto a evitare l’isolamento dei sacerdoti (meno grave, ma emergente, il fenomeno parallelo che riguarda i religiosi). Prevale ancora oggi – nonostante le sollecitazioni in senso contrario del Vaticano II – una visione individualistica del presbiterato e i casi di vita comune fra i sacerdoti sono ancora relativamente rari, nonostante interessanti sperimentazioni in prospettiva comunitaria. Il «non è bene che l’uomo sia solo» di biblica memoria vale anche, sotto questo aspetto, per i presbiteri.Alla fine, tuttavia, ritengo che la grande «ricetta» sia quella dell’amicizia e della vicinanza. Assicurare a presbiteri e religiosi autentiche amicizie laicali – maschili e femminili – è il migliore antidoto contro la presenza di un male con il quale anche la Chiesa, anzi soprattutto essa, è chiamata a misurarsi.