Oggi è il quinto giorno di Papa Francesco in Messico: dopo la tappa nel Chiapas, all’estremo Sud del Messico dove ha avuto luogo l’incontro con le famiglie e la Messa celebrata nelle lingue degli indios, Papa Francesco è a Morelia, nello Stato del Michoacán nel Messico centrale, uno dei nuovi epicentri della narcoviolenza: “Quest’ultima è arrivata - ha spiegato Lucia Capuzzi, inviata di Avvenire in Messico in un’intervista al Sismografo - a livelli tali che la popolazione si è organizzata in armi per difendersi. Le cosiddette ‘autodifese’ – con tutte le sue ambiguità – dimostra il grado di esasperazione degli abitanti”. Stando ai dati riportati dall’Osservatore Romano, negli ultimi 15 anni cinque sacerdoti sono stati uccisi e solo nel 2014 più di un migliaio di omicidi hanno insaguinato la città. Oggi ad attendere Papa Francesco ci sarà anche l’arcivesco di Morelia, il cardinale Alberto Suárez Inda che ha lanciato numerosi appelli alla pacificazione e alla rinuncia dei desideri di vendetta e di morte «che — ha ammonito in diverse circostanze — non producono nulla, solo la distruzione». Nello stadio "Venustiano Carranza", il Papa ha celebrato la Messa con i sacerdoti, religiose, religiosi, consacrati e seminaristi. Anche qui tanta gente e tanta gioia ad accoglierlo.
L'OMELIA «C’è un detto che dice così - ha esordito Francesco nell'omelia -: “Dimmi come preghi e ti dirò come vivi, dimmi come vivi e ti dirò come preghi”; perché, mostrandomi come preghi, imparerò a scoprire il Dio vivente, e mostrandomi come vivi, imparerò a credere nel Dio che preghi, perché la nostra vita parla della preghiera e la preghiera parla della nostra vita; perché la nostra vita parla nella preghiera e la preghiera parla nella nostra vita. A pregare si impara, come impariamo a camminare, a parlare, ad ascoltare. La scuola della preghiera è la scuola della vita e la scuola della vita è il luogo in cui facciamo scuola di preghiera. Primo punto, quindi la preghiera. Per seguire Cristo. Per vivere come Lui. «Gesù - continua infatti il Papa - ha voluto introdurre i suoi nel mistero della Vita, nel mistero della Sua vita. Mostrò loro mangiando, dormendo, sanando, predicando, pregando che cosa significa essere Figlio di Dio. Li invitò a condividere la sua vita, la sua intimità e, mentre stavano con Lui, fece loro toccare nella sua carne la vita del Padre. Fa loro sperimentare nel suo sguardo, nel suo camminare, la forza, la novità di dire: “Padre nostro”. In Gesù questa espressione non ha il “retrogusto” della routine o della ripetizione. Al contrario ha il sapore della vita, dell’esperienza dell’autenticità. Egli ha saputo vivere pregando e pregare vivendo, dicendo: Padre nostro». Perciò, a continuato Francesco, anche noi siamo invitati a fare lo stesso, senza essere "funzionari del divino", degli "impiegati". Lo ha detto anche con due frasi forti: «“Guai a me se non evangelizzassi!”, dice Paolo, guai a me!» e poi «Cos’è la missione se non dire con la nostra vita: Padre nostro?». Ha poi sviluppato il tema della tentazione. Delle tante tentazioni che possono minare la missione di sacerdoti, religiosi, religiose, consacrati. Compresa quella della rassegnazione, «una delle armi preferite dal demonio», «che ci paralizza», impedendo di camminare, annunciare, lodare, progettare, rischiare, trasformare le cose. Che «ci trincera nelle sacrestie». «Per questo, Padre Nostro, non lasciarci cadere nella tentazione». E sempre a proposito della tentazione Francesco ha anche ricordato il pericolo che viene dalla corruzione e dal narcotraffico: «Che tentazione ci può venire da ambienti dominati molte volte dalla violenza, dalla corruzione, dal traffico di droghe, dal disprezzo per la dignità della persona, dall’indifferenza davanti alla sofferenza e alla precarietà? Che tentazione potremmo avere sempre nuovamente di fronte a questa realtà che sembra essere diventato un sistema inamovibile?» Francesco ha quindi ricordato il primo vescovo di Michoacán, Vasco Vásquez de Quiroga, "lo spagnolo che si fece indio", conosciuto com “Tata Vasco” (padre Vasco nella lingua indigena). Fu un grande evangelizzatore, ha aggiunto il Papa che così si è espresso: «La realtà vissuta dagli indios Purhépechas descritta da lui come “venduti, vessati e vagabondi per i mercati a raccogliere i rifiuti gettati a terra”, lungi dal condurlo alla tentazione dell’accidia e della rassegnazione, mosse la sua fede, mosse la sua vita, mosse la sua compassione e lo stimolò a realizzare diverse iniziative che fossero di “respiro” di fronte a tale realtà tanto paralizzante e ingiusta. Il dolore della sofferenza dei suoi fratelli divenne preghiera e la preghiera si fece risposta concreta. Questo gli guadagnò tra gli indios il nome di “Tata Vasco”, che in lingua purépechas significa: papà. Padre, papà, abbà…» «Questa è la preghiera, questa l’espressione alla quale Gesù ci ha invitati - ha quindi concluso l'omelia Papa Francesco -. Padre, papà, abbà, non lasciarci cadere nella tentazione della rassegnazione, non lasciarci cadere nella tentazione della perdita della memoria, non lasciarci cadere nella tentazione di dimenticarci dei nostri predecessori che ci hanno insegnato con la loro vita a dire: Padre Nostro». A conclusione di questa penultima giornata in Messico, prima della visita domani al Penitenziario (CeReSo n. 3), è in programma l’incontro allo stadio "José Maria Morelos y Pavon" tra il Papa e giovani messicani (alle 23,30 ora italiana, ndr). Va ricordato che in Messico sono oltre 36 milioni i giovani e per molti di loro il dolore più grande è nel vedere il proprio futuro oscurato da questa situazione attuale che vede il Messico colpito dalla violenza, dalla povertà e dalla corruzione.