venerdì 13 febbraio 2009
L’arcivescovo di Napoli Sepe ha aperto ieri il convegno «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud. Nel futuro da credenti responsabili» a vent’anni dal documento della Cei sul Mezzogiorno. La sfida: essere Chiesa «in ascolto della nostra gente, al servizio del bene comune» in una terra ferita da mali profondi come la criminalità organizzata Mondello (Reggio Calabria-Bova): è tempo di parole vere che non restino sulla carta. Presenti ottanta vescovi e oltre trecento delegati diocesani.
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È un tempo «di estrema difficoltà». Tem­po «di incertezza e di sofferenza». Un tempo «che vede ancora di più nel bi­sogno e nella precarietà le famiglie, i giovani, coloro che ogni giorno lottano per portare a casa il pane quotidiano, con onestà e con fa­tica, preoccupati di mantenere integra la pro­pria dignità». Un tempo che sembra investi­re tutti, in ogni angolo del Paese; che al Sud, però, assu­me i contorni di una sorta di condanna eterna, senza ap­pello, senza più speranza da­vanti a mali che, come «i con­dizionamenti perversi della criminalità organizzata», ap­paiono incurabili. Ed è que­sta, alla fine, la grande sfida, e per questo «noi vescovi del Sud siamo qui per riorganiz­zare la speranza evangelica come presupposto, come struttura, come fondamento del rispetto e dei diritti della gente del Meridione». È stato il cardinale Crescenzio Sepe, arcive­scovo di Napoli, a introdurre con queste pa­role i lavori del convegno Chiesa nel Sud, Chie­se del Sud. Nel futuro da credenti responsabi­li, apertosi ieri a Napoli su iniziativa delle Chie­se delle cinque regioni meridionali. Napolitano: «Incontro che riflette dimensione sociale del fatto religioso». Una gran­de, visibile assunzione d’impegno da parte di oltre ottanta arcivescovi e vescovi, e più di tre­cento delegati diocesani per ribadire a vent’anni dal documento della Cei Chiesa i­taliana e Mezzogiorno «la nostra volontà di dare ragione – ha detto Sepe – della gioia no­stra e della speranza che è in noi: incarnare la Parola di Dio, mettendoci all’ascolto della no­stra gente, al servizio del bene comune». Un’iniziativa, come ha scritto il presidente del­la Repubblica Giorgio Napolitano nel mes­saggio indirizzato a Sepe, letto in apertura di un convegno, che «riflette chiaramente la di­mensione sociale e pubblica del fatto religio­so, da me richiamata nel primo messaggio al Parlamento. Essa costituisce un esempio – aggiunge il ca­po dello Stato – della sensibi­lità e dell’impegno civile del­la Chiesa e del mondo catto­lico specialmente rispetto a una realtà così critica come quella delle regioni meridio­nali e dunque alla necessità di uno sforzo solidale della co­munità nazionale per garan­tirne uno sviluppo sostenibi­le ed equo». Un’occasione di incontro e di confronto importante, e sen­tita. Il Sud e la globalizzazione. Aperta dall’auspicio e­spresso dall’arcivescovo di Reggio Calabria-­Bova Vittorio Mondello, presidente della pri­ma sessione dei lavori, che il convegno «pos­sa dare un contributo al documento della Cei che sarà predisposto, come ha detto il cardi­nale Angelo Bagnasco, a vent’anni da quello del 1989. Spero che dai nostri lavori emerga una documentazione valida, che non resti so­lo sulla carta, come purtroppo – non ha na­scosto il presule – ho l’impressione sia avve­nuto con il documento di vent’anni fa». Certo, ha detto Sepe nel saluto introduttivo, «sappiamo che non è possibile parlare, oggi, del Mezzogiorno, senza aver presenti le diffi­coltà che l’intero Paese si trova a vivere nel suo insieme», ma non «può consolare il fatto che la crisi del Mezzogiorno italiano deriva proprio dal mondo globalizzato». Per il porporato «sa­rebbe questa, in sostanza, la causa di una pre­sunta inattualità di una politica espressa­mente indirizzata al Mezzogiorno. Di fronte al­le dinamiche del mondo globalizzato, non ci sarebbe spazio, così si afferma, per localismi fuori dal tempo e, forse, dalla storia. Sempre più si sta dimostrando, tuttavia, che la globa­lizzazione non può essere un totem e che il va­lore delle identità, oltre che essere importan­te in sé, può mettere al riparo dagli squilibri che, spesso, la globalizzazione porta con sé». «Vogliamo essere protagonisti». Così, davanti a chi evoca l’idea del fallimen­to, «le Chiese del Sud non possono e non vo­gliono rassegnarsi, in nome del Vangelo che grida giustizia, pace e verità. Noi, insieme al­la nostra gente, vogliamo essere protagonisti dello sviluppo del territorio in cui viviamo e in cui hanno vissuto i nostri padri. Senza ver­gogna, senza nasconderci le difficoltà. Ap­parteniamo all’Italia, apparteniamo all’unica Chiesa italiana, ma siamo Chiesa nel Sud», che «vuole far sentire la propria presenza, vuo­le alleviare i dolori di una popolazione mor­tificata dai pregiudizi esterni e avvelenata dal­le violenze interne». Violenze come «una ca­morra sempre più invasiva, che condiziona la vita dei cittadini», ha aggiunto più tardi il car­dinale ai microfoni di Sat2000, di fronte alla quale «la Chiesa vuole spezzare questo lega­me mortifero, richiamando tutti a reagire con dignità. Certo – ha aggiunto – le parole non ba­stano. Il popolo di Dio chiede fatti. Bisogna cambiare lo stile della nostra pastorale. Se u­sciremo dai palazzi e ascolteremo chi non ha voce riusciremo a fare qualcosa. Bisogna to­gliere il terreno alla malavita, e offrire a chi vi­ve nella zizzania la possibilità di formazione e di impegno lavorativo». Le speranze nei giovani. L’ultimo accenno Sepe l’ha dedicato ai giova­ni, invitati a essere le «sentinelle» di una rin­novata speranza. I giovani, ha sottolineato, hanno dato al Mezzogiorno «molto», pur es­sendo stati «essi per primi a pagare i prezzi che la mancanza di lavoro, la sopraffazione della violenza organizzata, la rete di clientele, che li ha esclusi da ogni processo produttivo, ha imposto in modo sistematico e talvolta cru­dele ». Napoli: l’intervento introduttivo del cardinale Sepe ieri al convegno «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud. Nel futuro da credenti responsabili» (foto agenzia Controluce)
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