Aspettava con gioia la cena organizzata ieri sera con il gruppo venuto a Roma, padre Camille Piché. Avrebbe incontrato un amico. Un amico nativo. Il missionario Oblato di Maria Immacolata (Omi), canadese di genitori francofoni, per un quarto di secolo – dal 1964 al 1988 – è stato missionario tra le genti dei Territori del Nordovest, i Dené. In particolare con i Chipewyan, gli Slavey e i Dog Rib (costola di cane). Poi è passato con un altro gruppo delle First Nations: i Denetha. Ha preso il posto di un confratello italiano, padre Camillo Prosdocimo, vissuto per vent’anni con loro. Attualmente il religioso ca- nadese è a Roma come responsabile della commissione «Giustizia, pace e salvaguardia del creato» in seno alla congregazione, nella cui casa generalizia oggi si recherà la stessa delegazione che è stata dal Papa. Quando era responsabile della provincia oblata di Grandin, padre Piché ha avuto molto a che fare con le questioni legate alle Residential Schools. «Nelle zone dove ho operato io – racconta – c’erano dei piccoli gruppi familiari che vivevano di caccia e pesca. Ai tempi l’unica possibilità per dare continuità scolastica era creare questi istituti residenziali. Ma ciò ha portato a una separazione per lungo tempo di ragazzi e ragazze dalle famiglie: dieci mesi all’anno». Ed è questa una delle obiezioni mosse. In questo modo la cultura nativa si è indebolita. Gli Omi hanno ammesso di aver contribuito a questo portando all’occidentalizzazione. Lo hanno fatto durante il tradizionale pellegrinaggio al Santuario di Lac Sainte Anne nel 1991. È un’esperienza che si tiene dal 1889 e che il religioso ha vissuto più volte. Ogni anno raduna dai 20 ai 40mila nativi, in maggioranza cattolici, da tutte le province e anche dai confinanti Stati Uniti. È considerato un luogo di guarigione e vi si svolgono preghiere e Messe nelle lingue locali. «In quell’occasione noi oblati chiedemmo scusa per essere stati, non solo per quanto riguarda le Residential Schools, ma più in generale, parte del sistema coloniale. Di aver imposto i nostri valori, il nostro modo di vivere, non riconoscendo la loro cultura, la loro lingua e la loro spiritualità ».Ma questo non significa che i rapporti con i nativi non siano buoni. «Sono persone molto spirituali e vedono nel sacerdote un uomo di Dio. In questo senso, anche la visita al Papa ha un significato molto speciale per loro. E questo è un momento molto importante nel cammino di riconciliazione che stiamo compiendo». Una storia, quella della presenza degli Omi nel Paese nordamericano, che è tutt’uno con quella della nazione. «Bisogna dire che molti missionari sono stati autentici eroi, dei pionieri. Ci sono molte località che portano il loro nome, perché sono stati loro a fare il primo Canada», ricorda padre Benito Framarin, a lungo missionario a Edmonton, capitale dell’Alberta, poi a Toronto e per dieci anni direttore del Corriere canadese. I primi evangelizzatori arrivarono a metà Ottocento. Iniziarono a stare tra gli indigeni, a impararne la lingua, a condividere la loro vita. Ad aiutarli nelle epidemie che li decimavano e li prostravano. Li seppellivano, anche. Oppure li sostenevano. Come quando, intorno al 1870, il bisonte iniziò a sparire. E dall’animale dipendeva tutto: cibo, vestiario, abitazioni, i celebri tepee. Anche al cambio di secolo, i missionari agivano a favore della popolazione, facendo da intermediari linguistici tra nativi e immigrati europei che iniziavano ad arrivare a centinaia di migliaia e a inurbarsi. Edmonton in pochi anni crebbe da 250mila a un milione di abitanti. Il lavoro educativo e per i poveri era incessante. E continua tuttora. Padre Benito Framarin (Omi): molti missionari sono stati autentici eroi. Dalla parte dei nativi nelle prove più difficili: dalle epidemie alla scomparsa dei bisonti