«Quando Papa Francesco, sei mesi fa, mi ha affidato la missione di ordinario militare, ho subito pensato che ci trovavamo nel 50° della
Pacem in terris, un’enciclica scritta da Giovanni XXIII del quale proprio nel giorno della mia nomina ricorreva la vigilia della festa. Ho sempre avuto una devozione particolare per lui, che tra pochi giorni verrà proclamato santo, e mi aiuta pensare che il suo grande insegnamento sulla pace sia nato dall’avere vissuto egli stesso il servizio militare e dall’aver servito la Chiesa come cappellano militare. Sì, la missione della Chiesa nel mondo militare non esclude, anzi implica profondamente, l’impegno evangelico per la pace ». Monsignor
Santo Marcianò, dallo scorso ottobre ordinario militare per l’Italia, ama spesso rievocare la figura di Giovanni XXIII, soprattutto quando, come è successo di recente, la speciale porzione di Chiesa di cui è pastore viene messa in discussione anche all’interno della comunità ecclesiale.
Avvenire ha intervistato l’arcivescovo anche in vista della canonizzazione del 'Papa buono' che fu al contempo cappellano militare ed estensore di una profetica enciclica sulla pace.
Eccellenza, lei è ordinario militare da sei mesi. Che idea si è fatto della presenza della Chiesa-ordinariato in un mondo particolare come è quello militare? È una vera e propria realtà di Chiesa! Una presenza di Chiesa richiesta, impegnata, necessaria. Mi ha subito colpito come l’opera della Chiesa, in particolare dei sacerdoti, sia non solo stimata ma voluta dalla maggior parte dei militari i quali ne riconoscono la preziosità del servizio, di un impegno di cui spesso non si coglie la portata ma che investe realmente tutti gli ambiti dell’evangelizzazione: l’annuncio della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la pastorale giovanile e familiare, il supporto personale di situazioni difficili, lo stesso discernimento vocazionale… Penso, solo come esempio, alla facilità con cui, nelle caserme, si possono avvicinare quei giovani spesso così difficilmente raggiungibili in altre realtà locali.
Quindi l’intuizione di creare i vicariati castrensi, citati anche dal Concilio nel decreto Christus Dominus, conserva tutta la sua attualità… In pochi mesi ho visto un campo d’azione straordinariamente vasto, per evangelizzare il quale non bastano sporadici interventi, è necessaria la presenza che dona identità: questa Chiesa deve avere coscienza - riprendendo papa Francesco nella
Evangelii gaudium - di essere un 'popolo', affidato alla guida e alle cure di un unico pastore col suo presbiterio; di essere una 'comunità', edificata attorno all’Eucaristia e inviata ad annunciare il Vangelo in comunione con la Chiesa universale.
Lei ha già visitato numerosi reparti di varie forze armate, tra cui anche i militari impegnati in Afghanistan e nei Balcani. Come valuta questo loro particolare compito? I militari che ho incontrato operano nel settore della difesa come pure nel supporto concreto e generoso di situazioni di emergenza, indigenza, emarginazione. Lo fanno con serietà, senso di responsabilità verso la vita altrui, dedizione fino al sacrificio della propria vita: valori talora dimenticati e invocati proprio nell’attuale crisi culturale e nell’emergenza educativa. È compito dei po-litici, non nostro, valutare l’opportunità delle diverse missioni di pace, come pure chiedersi perché ci siano guerre dimenticate che non suscitano l’intervento della comunità internazionale. È indispensabile, però, che i militari, per primi, siano educati alla pace, a imparare la pace come risposta e stile da portare nelle logiche di guerra. E chi può svolgere questa formazione umana e cristiana meglio della Chiesa?
Anche all’interno del mondo cattolico c’è chi vede una contraddizione tra l’essere uomini di Chiesa e un impegno pastorale istituzionalizzato nell’ambito delle forze armate. In base alla sua esperienza come giudica questa valutazione? Apprezzo che la sua domanda faccia riferimento all’«esperienza»: spesso, infatti, di argomenti come questi si rischia di parlare in modo teorico quando non superficiale. La realtà delle forze armate, assieme a tutti i corpi armati dello Stato, rappresenta una delle istituzioni ovvie di ogni Paese democratico con la funzione di garantire difesa, sicurezza, legalità. La Chiesa, assicurando loro l’assistenza spirituale, riconosce nel mondo dei militari - per dirla ancora con il Papa - una 'periferia' da evangelizzare. E mi creda, per quello che ho visto, questa evangelizzazione è reale e convinta, improprio.
In che senso? Non si tratta, infatti, di ministri che esercitano un ruolo liturgico più o meno significativo, ma di presbiteri che vivono con i militari da sacerdoti: obbediscono al vescovo, vivono totalmente le esigenze del Vangelo e dimostrano, così, la libertà della Chiesa che non teme di condividere le condizioni di vita delle persone, senza assumerle completamente, ma facendo trasparire la carità di Cristo che trasforma il cuore e la vita.
L’ordinariato ha smentito che sia stato costituito un tavolo di confronto ufficiale tra governo italiano e Santa Sede per rivedere lo status dei cappellani militari. Ritiene tuttavia che ci possano esseri degli aspetti di questo status che possono essere rivalutati per adeguarli ai tempi? E quali dovrebbero essere, nel caso, le procedure da seguire? Come dicevo, va tenuto conto che, in Italia, è stato ed è il mondo militare a richiedere l’opera dei sacerdoti, riconoscendo nel loro essere 'assimilati ai militari' la condizione di un efficace espletamento del ministero pastorale. Qualunque modifica in questo ambito deve assicurare la prosecuzione di tale missione; va pertanto attentamente studiata da persone competenti e decisa dagli organi preposti, ovvero governo italiano e Santa Sede. Posso confermare che non è in atto alcun tavolo di confronto, come certa stampa in questi giorni sembra affermare. La riflessione, che la Chiesa porta avanti da sempre, mira ad adeguare alla realtà storica la purezza e l’incisività della testimonianza evangelica dei presbiteri, anche quelli chiamati alla cura educativa, spirituale e pastorale di tanti uomini e donne nel mondo militare.
Ma, in concreto, è possibile immaginare in un futuro più o meno prossimo cappellani militari senza stellette e gradi, e quindi con una remunerazione da questi sganciata? Lo stato giuridico dei cappellani non è legato né allo stipendio né tanto meno ai gradi. Come già successo in altri Stati la modifica dell’inserimento dei cappellani all’interno della realtà militare è certamente possibile, a condizione che si trovino delle formule alternative adatte affinché i sacerdoti possano continuare ad esercitare il proprio ministero all’interno del mondo militare.