Aloisio Jin Luxian (1916-2013), vescovo di Shanghai
È possibile essere profondamente cinesi e, al tempo stesso, “cattolici romani”? Il caso di Aloisio Jin Luxian (1916-2013), vescovo di Shanghai, mostra che si può. La sua è stata una delle voci della Chiesa cattolica cinese più note nel mondo. Nei suoi viaggi all’estero e ricevendo visitatori stranieri - tra i tanti Bill Clinton e Angela Merkel - raccontava di una Chiesa molto vitale nella sua città: quasi cento chiese aperte, un grande Seminario, un’editrice che stampava Bibbie e altri libri religiosi, un vivace associazionismo laicale. Erano notizie sorprendenti. Ma a sorprendere più di tutto era lui stesso, questo vescovo cinese colto, raffinato e ironico, che professava apertamente la sua devozione al Papa, aveva familiarità con persone e vicende della Chiesa universale, discuteva di grandi questioni internazionali. Ciò che più colpiva in lui era proprio il suo senso “romano” della Chiesa, che emergeva anche da particolari curiosi: leggeva “L’Osservatore Romano”, studiava attentamente l’Annuario pontificio, coltivava una singolare amicizia a distanza con Giulio Andreotti…
Un forte legame ha sempre unito Jin Luxian a Shanghai, segnata da una forte presenza occidentale e più importante porto commerciale cinese, dove si incontravano uomini di tutto il mondo alla ricerca di merci, affari e piaceri. Ma è anche la città dove, a partire dalla metà del XIX secolo, i gesuiti aveva realizzato un insediamento imponente: scuole, collegi, orfanotrofi, tipografia, biblioteca, chiesa costruiti a Zikawei, come gli shanghaiesi chiamano Xujiahui, la zona della Cattedrale, “terra della famiglia Xu”, proprietà degli eredi di Xu Guangqi, il discepolo ed amico di Matteo Ricci. Dopo essere cresciuto in una casa vicina allo storico giardino del mandarino Yu, anche Jin Luxian studiò dai gesuiti. I suoi professori, soprattutto francesi, non parlavano cinese e così, dopo la sua lingua materna, il dialetto shanghaiese, la prima lingua che imparò fu il francese (poi sono venuti il mandarino, il latino, l’inglese, l’italiano e il tedesco). Ma, nonostante la sua eccezionale apertura internazionale, si è sempre sentito profondamente cinese ed è stato, a suo modo, uno straordinario 'ambasciatore' della Cina nel mondo, che ha contribuito a far rispettare e ammirare anche in anni difficili e in ambienti ostili.
Il giovane Jin nutrì ammirazione per i suoi maestri gesuiti e si fece gesuita. Maturò però un giudizio critico verso il senso di superiorità dei missionari stranieri, che portava all’esclusione dei sacerdoti cinesi dallo studio e dall’insegnamento della teologia, considerati dagli ecclesiastici europei troppo importanti per essere affidati a cinesi. E si convinse che il clero locale dovesse assumersi pienamente la responsabilità della Chiesa in Cina. Studente brillante, fu mandato ad approfondire i suoi studi in Francia, dove conobbe Henri de Lubac e altri teologi poi divenuti famosi con il Vaticano II. Quando si spostò a Roma, non percepì sensi di superiorità nei suoi confronti e respirò un clima meno intriso di spirito nazionalista e più universale. Qui apprese quel senso “romano” della Chiesa, grazie al quale riuscì a coniugare grande fedeltà al papa e quella che chiamava “flessibilità', preziosa in contingenze storiche dominate da pesanti contrapposizioni ideologiche. Era ancora a Roma quando nel 1949 fu proclamata la Repubblica popolare cinese. Molti cercarono di convincerlo che era meglio per lui restare all’estero, studiare e insegnare in qualche università pontificia… Ma «un pastore non abbandona il suo gregge». Rientrato a Shanghai, gli venne chiesto dal vescovo Gong Pinmei quando sarebbero venuti gli americani e tornati i nazionalisti. Ma Jin rispose che non sarebbe successo: i cattolici cinesi dovevano cercare la loro strada nella Cina comunista.
Nel 1955 venne arrestato e cominciarono per lui diciotto anni di prigione. Mentre pagava soprattutto per errori compiuti da altri, rimase fedele alla sua duplice identità di cinese e di sacerdote. Convinto che le persone contano più delle leggi della politica, fece tesoro di ogni contatto umano, anche con i suoi carcerieri. Non perse la speranza, vedendo che la società cinese era in continua trasformazione e convinto che tutto facesse parte di un disegno misterioso della Provvidenza, da cui sarebbe scaturito un futuro migliore non solo per se stesso ma anche per la Chiesa e per tutta la Cina. Quando uscì dal carcere venne mandato per altri lunghi anni lontano da Shanghai.
Ma all’inizio degli anni ottanta, gli venne improvvisamente proposto di tornare nella sua città, per assumere un ruolo rilevante nella Chiesa di Shanghai. Il periodo di “riforme e apertura” inaugurato da Deng Xiaoping era appena all’inizio e non era prevedibile l’enorme trasformazione dei decenni successivi. Ci si poteva fidare di quella proposta? Jin Luxian capì che, non solo per lui ma per la Chiesa, a Shanghai e in tutta la Cina, si apriva una possibilità troppo importante per lasciarla cadere: se accolta, infatti, quella proposta poteva aprire la strada ad una ripresa della Chiesa o, se rifiutata, l’avvio della sua definitiva scomparsa. Accettandola pensò anche che avrebbe aiutato il suo paese ad uscire fuori dalla difficile situazione in cui si trovava dopo la morte di Mao. Qualche anno dopo venne ordinato vescovo in modo “illegittimo” e assunse il ruolo di ausiliare, mentre il vescovo titolare Gong Pinmei era ancora in carcere. Jin è stato criticato per questa sua scelta da molti cattolici, non solo in Cina ma anche fuori: la sua richiesta di perdono e riconciliazione rivolta al papa ha aspettato fino al 2005.
Tra i motivi di maggior perplessità c’è stato il suo atteggiamento verso l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, il cui ramo shanghaiese accettò di dirigere (pur protestando per quell’aggettivo “patriottico”, che alludeva ad un sospetto di scarso amore per la patria nei cattolici cinesi). Jin Luxian venne accusato di aver collaborato con quello che i “clandestini” ritenevano il braccio armato del controllo politico sulla Chiesa. Ma, forte del suo ruolo, agì energicamente allontanando dall’associazione elementi di dubbia fede e moralità, pretendendo che ne facessero parte solo membri di cui conosceva la solida formazione cattolica. In questo modo, fece dell’APCC un elemento di forza per la diocesi di Shanghai. Fino alla sua morte, la Chiesa di questa città è fiorita e ha costituito un modello per tutta la Cina: tra le prime ad introdurre l’aggiornamento conciliare e il rinnovamento liturgico, è diventata famosa per le sue iniziative spirituali, culturali e sociali. Jin ha continuato anche negli ultimi anni a coltivare progetti per il futuro: sperava ad esempio di avviare la causa di beatificazione di Xu Guangqi, il fondatore della Chiesa di Shanghai. Non ha mai smesso di sognare che un giorno il papa potesse venire in Cina e benedire una folla, che immaginava numerosissima. Non è accaduto, ma nel 2010 mi è sembrato che molti nodi della sua vita si sciogliessero vedendo la sua commozione mentre abbracciava lungamente il cardinale Crescenzo Sepe venuto a visitarlo.
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