Il cardinale Celso Costantini
Sin da quando è stato eletto, papa Francesco non ha smesso di mostrare affetto e stima per il popolo cinese. Il Papa è convinto che la “Chiesa in uscita” debba avvicinarsi di più a questo grande Paese con oltre un miliardo e trecento milioni di persone, di cui solo una minoranza ha sentito parlare di Gesù Cristo mentre sono una maggioranza quelli che festeggiano il Natale senza sapere di che si tratti. Ed è anche per questa sua convinzione profonda che i contatti tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese si vanno
stabilizzando e intensificando. Ci sono vescovi illegittimi – e cioè ordinati senza il consenso di Roma – che hanno chiesto di tornare nella piena comunione cattolica, come è stato già concesso a decine di altri come loro da oltre trent’anni. C’è l’urgenza di dare un pastore a molte diocesi, senza che ciò comporti nuove pesanti lacerazioni. Ci sono alcune situazioni problematiche di vescovi “clandestini” – ma, talvolta, anche di vescovi “ufficiali” – che vanno risolte. Quando si discute di rapporti tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese, infatti, non si dovrebbe mai dimenticare che è in gioco il destino di una Chiesa piccola ma viva e vitale, che merita un profondo rispetto.
Per questi motivi Avvenire ha deciso di raccontare alcuni momenti della storia della Chiesa in Cina e di quella, strettamente connessa, dei rapporti tra Santa Sede e la Cina contemporanea, attraverso le vicende di protagonisti, conosciuti e sconosciuti. Da quando Benedetto XV ha indicato la Cina come una priorità per tutto il mondo cattolico, circa un secolo fa, lo sforzo di inculturazione del cattolicesimo in questo Paese ha dato frutti importanti, che si percepiscono ancora. C’è stato, successivamente, un grande gelo, che ha raggiunto il suo culmine con la Rivoluzione culturale, ma dall’inizio degli anni Ottanta è ripreso un cammino tormentato ma appassionante, attraverso strade spesso imprevedibili.
La Chiesa di fronte alla “sinizzazione”
Stanno facendo oggi molto discutere le disposizioni sulla “sinizzazione” delle religioni presenti in Cina, fortemente raccomandata da Xi Jinping. Sono il frutto di decisioni recenti – prese con la Conferenza nazionale sul lavoro religioso nel 2016 – che si collegano ad una tradizione molto antica. La Cina si è considerata a lungo il centro del mondo e il sino-centrismo è il sistema su cui per molti secoli ha fondato i propri rapporti col mondo esterno. Tuttavia la millenaria storia imperiale è stata caratterizzata dalla costante ricezione e sintesi di elementi provenienti da altri contesti, in campo religioso, politico o culturale. Contrariamente a quanto spesso si pensa, fin dall’antichità la Cina è stata capace di recepire insegnamenti religiosi di origine straniera, purché sviluppassero un processo di adattamento al contesto cinese. In particolare, almeno a partire dalla dinastia Qing (1644-1911), è stata caratterizzata da una grandissima pluralità etnica, culturale e religiosa.
A tale processo si collega oggi la “nuova” parola d’ordine della “sinizzazione”. Sia nel termine cinese (Zhongguohua) sia nelle sue traduzioni in varie lingue occidentali, il concetto può essere inteso secondo varie accezioni: culturale, etnica o politica. La dirigenza politica cinese sembra però orientata ad intendere questa linea come una perentoria richiesta alle comunità religiose presenti nel Paese di adattarsi alla situazione politica guidata dal Partito comunista, di rispettare le leggi, di inserirsi nella società socialista, di partecipare alla realizzazione del “sogno cinese”, secondo uno degli slogan più in voga. Finora l’effetto più vistoso è stato quello di innalzare la bandiera nazionale in molti luoghi di culto. Si potrebbe quindi parlare di una “sinizzazione politica” delle religioni.
Fin dall’epoca di Matteo Ricci, la storia della Chiesa in Cina è stata attraversata dalla tensione verso una “sinizzazione culturale” del cattolicesimo. Nei primi decenni del Novecento la storia della sinizzazione della Chiesa ha vissuto una svolta e la principale novità si è avuta sul piano pastorale con la promozione del clero e dell’episcopato cinesi. In un’epoca di forti nazionalismi la Santa Sede ha voluto ribadire l’universalità della Chiesa. La Cina è stata laboratorio e banco di prova di questa scelta, anche grazie alla decisiva azione di monsignor Celso Costantini (1876-1958), primo delegato apostolico dal 1922 al 1933 e fautore convinto di una Chiesa autenticamente cinese. A Costantini è poi subentrato come delegato apostolico monsignor Mario Zanin. Elevare alla dignità del sacerdozio e, ancor più, dell’episcopato persone di tutti i popoli è conforme ad una direttiva seguita, tra alterne vicende, da Propagada Fide fin dal 1659 ed espressiva di quell’universalità della Chiesa cattolica che, sebbene per secoli si sia radicata soprattutto in Europa, non si è mai identificata del tutto con una sola civiltà.
L'impulso di Benedetto XV e il Concilio di Shanghai
Consapevole che, dalla metà dell’Ottocento, dopo le Guerre dell’oppio, l’identificazione tra cattolici ed europei attirava l’ostilità dei cinesi, Costantini perseguì – tra mille resistenze e polemiche – l’avvio e la realizzazione di un profondo processo di localizzazione del cattolicesimo, in linea con quanto espresso nella lettera apostolica Maximum Illud di Benedetto XV (1919). Preziosa per lui era stata l’esperienza come amministratore apostolico a Fiume durante l’occupazione dannunziana. Di origine friulana, aveva partecipato alla prima guerra mondiale con convinto patriottismo, appoggiando la rivendicazione delle terre irredente e ritenendo che cristianesimo e patriottismo dovessero andare di pari passo. Il riconoscimento positivo del sentimento patriottico, in seguito, lo aiuteranno a comprendere il desiderio cinese di riscatto nazionale.
Solo due anni dopo il suo arrivo in Cina convocò a Shanghai il tanto atteso “Concilio plenario della Chiesa di Cina” per discutere la promozione del clero locale e affermare la parità e la fraternità tra sacerdoti cinesi e stranieri ancora non accettata da tutti i missionari europei. Basti pensare che questi ultimi negli anni ’20 spesso non mangiavano alla stessa tavola dei loro confratelli cinesi e usavano esporre nelle missioni cattoliche iscrizioni e bandiere nazionali europee. Tanti furono i decreti del Concilio di Shanghai per modificare la situazione. Sorse anche una controversia sul termine con cui veniva tradotto Catholica religio in cinese e uno dei due termini più consigliati dai missionari fautori della “sinizzazione” della Chiesa fu appunto gongjiao, religione universale.
1926, la storica ordinazione in San Pietro
Non sorprende che, nel 1926, Costantini abbia accompagnato a Roma i primi sei cinesi candidati all’episcopato che il 28 ottobre di quell’anno vennero consacrati nella basilica di San Pietro da Pio XI. Così scriveva Costantini al Segretario di Stato, il cardinale Gasparri: «La nomina dei sei Vescovi Chinesi e la loro consacrazione a Roma hanno prodotto una profondissima impressione: è come se una scossa elettrica fosse passata per le Missioni, ridestando gli animi e dirigendoli sopra un nuovo cammino [...] Ci si è accorti che, se non si cambiava strada, si finiva col creare in Cina una Chiesa servile».
La necessità di promuovere il clero locale – priorità assoluta per Costantini – emerge chiaramente anche dalla creazione della Congregatio discipulorum Domini, da lui fondata, la prima congregazione religiosa riservata esclusivamente a sacerdoti di nazionalità cinese. Celso Costantini ha dato un contributo rilevante anche alle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Cina. Già Pio IX aveva scritto all’imperatore cinese e, dopo di lui, tutti i pontefici hanno riservato un’attenzione speciale a questo Paese. Sia Leone XIII sia Benedetto XV tentarono di allacciare relazioni diplomatiche, entrambi bloccati dalle potenze europee. Pio XI proseguì la linea del suo predecessore e i tentativi di Costantini, anche se non ebbero successo, prepararono la strada. Nel 1946, infatti, mentre Costantini, tornato in Italia, era segretario di Propaganda Fide, si giunse ad allacciare relazioni diplomatiche e lo stesso anno Pio XII creò il primo cardinale di nazionalità cinese: il verbita Tian Gengxin, vescovo di Qingdao. Di lì a poco il Papa costituì in forma stabile la gerarchia episcopale in Cina. Il cardinale Tian venne allora nominato vescovo di Pechino dopo che, per tre secoli, questa sede aveva avuto vescovi stranieri. La Chiesa in Cina passava dal “regime missionario” al “regime ordinario”. Si compiva così una fase storica molto ricca e particolare di “sinizzazione pastorale” della Chiesa cattolica, in linea con le direttive della Santa Sede. Ad essa oggi la Chiesa guarda con ammirazione, come testimonia il recente avvio della causa di beatificazione di Celso Costantini.