Il papa merito Benedetto XVI con padre Lombardi - Ansa
Sono stati provvidenziali i quasi dieci anni da Papa emerito di Benedetto XVI. Perché ci hanno permesso di focalizzare meglio la figura di Joseph Ratzinger e il suo pontificato. Ponendo le premesse anche per valorizzarne l’eredità «come lui avrebbe voluto», cioè con lo sguardo in avanti e non semplicemente nell’esegesi del suo pensiero e del suo magistero. Le circostanze della morte poi ci hanno dato la cifra di una fedeltà assoluta al mistero di Cristo, meditato fino alla fine come le ultime parole dimostrano. Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana negli anni del pontificato e ora presidente della Fondazione Ratzinger-Benedetto XVI, alla vigilia del funerale che Francesco celebrerà questa mattina in piazza San Pietro, così rileggeva ieri gli eventi degli ultimi giorni. Sottolineando la profondità spirituale con cui papa Ratzinger si è preparato all’incontro con Dio.
Padre Lombardi, ripartiamo dunque dalla fine. Ciò che è successo ci ha fatto capire meglio chi era Benedetto XVI?
Io penso di sì. Lui all’incontro con il Signore si era preparato da almeno dieci anni. E ce l'ha detto molto chiaramente, congedandosi da noi alla fine del suo pontificato: ritirarsi sul monte in preghiera, soprattutto nel confronto interiore con Gesù. Chi ha seguito questo periodo lo sa. Anche nelle “Ultime conversazioni” con Seewald aveva detto parole molto toccanti sul clima di preparazione spirituale che stava vivendo. In particolare mi avevano toccato le parole in cui accennava a stare davanti a Gesù Cristo meditando le sue parole nel Vangelo e quelle che gli rimanevano particolarmente grandi e misteriose. La figura di Cristo, che aveva studiato a lungo, è stata fino alla fine la sua bussola, specie nell’adorazione, uno dei punti fermi del suo pontificato e anche un riferimento fondamentale per comprendere la sua personalità.
Anche le sue ultime parole, del resto (“Signore, ti amo”) vanno in questo senso.
E non solo quelle. Penso alla lettera che scrisse dopo le accuse ricevute dalla Germania l’anno scorso. C’era un esplicito riferimento all’incontro con il Signore e dell’atteggiamento con cui egli si preparava. Umiltà e consapevolezza dei peccati suoi e della Chiesa da un lato, ma grande fiducia nel Giudice e anche nell’Avvocato, il Paraclito, colui che ti ama e ti dice “non temere” e che ti accompagna nel passare la soglia della morte che va verso il mistero.
Lei lo ha visto spesso in questi dieci anni. Com’era il Papa emerito visto da vicino?
Le mie occasioni di incontro sono state principalmente (anche se non solo) quelle in cui accompagnavo i premiati del Premio Ratzinger. Erano momenti di incontro con persone di profondità teologica e spirituale che lui apprezzava e che lo apprezzavano moltissimo. Incontri molto interessanti sia per i temi culturali e teologici trattati, sia per il rapporto che si stabiliva. Ma mi colpiva soprattutto la sua intatta curiosità intellettuale. Si interessava agli argomenti sui quali i premiati avevano lavorato e poneva domande molto pertinenti, risalendo spesso con i ricordi a situazioni di decine di anni prima. Restavo ammirato della presenza mentale e spirituale, e della memoria con cui egli conduceva i colloqui. Certo, negli ultimi due incontri la voce era diventata un po’ flebile, tanto da dover ricorrere talvolta all’aiuto di monsignor, Gänswein. Ma la presenza e la lucidità erano sempre le stesse.
Nel discorso di papa Francesco per l’edizione 2022 del Premio Ratzinger si fa proprio riferimento al suo sguardo.
In effetti il brillare degli occhi soprattutto era davvero impressionante. Il Pontefice aveva fatto riferimento agli occhi contemplativi con cui Benedetto ci guardava. E questa è un’osservazione che negli anni avevo fatto anch’io. Non solo ti diceva l’intelligenza, l’acutezza e l’attenzione con cui si avvicinava a tutti i suoi interlocutori, spesso accompagnati da un sorriso molto dolce. Ti dava l’impressione che entrasse in profondità, nel cercare te e la tua anima. Era uno sguardo straordinariamente espressivo di profondità, di lungimiranza e di spiritualità. Un aspetto che nel rapporto ravvicinato colpiva davvero molto.
Sta dicendo dunque che i dieci anni sono stati come una lente di ingrandimento per capire meglio Benedetto XVI?
Mi sembra una buona immagine. Resto convinto che una certa distanza di tempo abbia agito positivamente per una visione più equilibrata del Pontificato. In questi anni ci sono stati anche alcuni momenti di discussione a proposito di alcuni suoi interventi, ma mi sembrano cose talmente microscopiche che veramente non aveva nessun senso il fatto di interpretarle in chiave di tensione con Francesco. Una cosa assolutamente infondata. Si deve invece guardare al suo periodo da emerito come a un insieme coerente di preghiera. E anche da parte della gente, il grande afflusso di questi giorni dice come l’affetto sia rimasto profondo, anzi forse la riflessione sul senso grande del suo pontificato, in particolare sulla profondità magisteriale di orientamento della Chiesa in tempi difficili, emerge anche più chiaramente. E anche la rinuncia si comprende meglio in questo contesto più ampio.
Lei è il presidente della Fondazione Ratzinger. Come conservare e trasmettere l’eredità di Benedetto XVI?
Ritengo che sia estremamente importante non solo fare un’esegesi del suo pensiero e conservarne una memoria chiusa su se stesso. Ma continuare a guardare, come ha fatto lui, alle grandi domande della Chiesa e della cultura nel mondo contemporanea, a far dialogare fede e ragione, a ricercare i fondamenti della cura del Creato e dei veri diritti umani, in un mondo che tende a moltiplicarli, salvo poi accorgersi che diventano confliggenti l’uno con l’altro. Guardare avanti, dunque. Anche per far propria la sua visione della continuità del “soggetto-Chiesa”, nella storia e nel succedersi dei pontificati.